Livia non cede

Nel 1058 Forlì e Faenza si coalizzano contro Ravenna: uno scontro fondativo della Romagna comunale


Nell’anno del Signore 1058 la Romagna fu teatro di un conflitto che, pur limitato nella sua estensione territoriale, rivelò con chiarezza la nuova fisionomia politica delle comunità cittadine dell’Italia centro-settentrionale. Non si trattò di una guerra tra regni o dinastie, ma di uno scontro fra città, mosse da interessi economici, controllo del territorio e affermazione giurisdizionale. L’attento Sigismondo Marchesi, collezionista di fonti vere e verosimili su tutte le età di Forlì, dai primordi ai giorni suoi, non ne tratta, citando per qualche decennio dopo dissapori bellici tra Ravenna e Faenza. Se ne legge, invece, negli Annales Forolivienses, dove – vista la bontà richiesta nel periodo natalizio – consegue “maxima pax et concordia inter Livienses et Faventinos”, una grande intesa e armonia tra Forlì e Faenza. E quando queste alleanze sbocciano c’è sempre un nemico comune: Ravenna, appunto. 

Ravenna, forte del proprio prestigio antico e del ruolo ancora rilevante nella regione, tentava di estendere la propria influenza su Livia, cioè Forlì, centro minore ma strategicamente collocato. La pressione non fu soltanto militare: le fonti ricordano l’imposizione di leggi e obblighi ritenuti iniqui dalla comunità liviense. A tali pretese i Liviensi risposero con un netto rifiuto, opponendo non eserciti professionali, ma la difesa collettiva della civitas.

Livia allora era protetta da una robusta palizzata lignea innalzata a ridosso di un fossato colmo d’acqua, soluzione tipica dei centri dell’anno Mille. Dietro quelle difese, gli uomini di Forlì si prepararono a sostenere l’urto ravennate. L’attacco giunse con inganno e violenza. I Ravennati devastarono i campi e incendiarono le messi nel tentativo di piegare la città per fame e terrore. Ma l’assalto diretto alle palizzate incontrò una resistenza inattesa. Dalle difese lignee piovvero colpi e dardi, e il fossato rallentò l’impeto degli assalitori. Dopo aspri combattimenti, i Ravennati furono respinti con perdita e disonore.

Il pericolo, tuttavia, rese evidente la fragilità di Livia. Fu allora che intervenne Faenza, la città vicina. I Faventini, legati a Livia da interessi comuni e dalla necessità di contenere l’espansione ravennate, offrirono legname, manodopera e assistenza tecnica. In breve tempo le difese furono rafforzate e rese più efficaci. Per molti anni, ricordano le cronache, fra Livia e Faenza regnarono pace e concordia, fondate sulla reciprocità dell’aiuto. La sconfitta non placò tuttavia Ravenna gonfia di “superbia et malivolentia”. Anzi, l’orgoglio ferito si trasformò in ostilità aperta contro Faenza, colpevole di aver sostenuto i Liviensi. Poco tempo dopo, un grande esercito ravennate penetrò nel contado faentino e pose il campo in una località detta Durbecho (Borgo Durbecco), arrecando gravi danni alle popolazioni rurali.

A questo punto il conflitto assunse una dimensione più ampia. I Faventini chiamarono in aiuto i Forlivesi, che risposero per debito di alleanza e riconoscenza. Le forze congiunte affrontarono i Ravennati “livore et odio accensi” in una battaglia lunga e incerta, combattuta con accanimento per molte ore. La tradizione attribuisce l’esito finale non solo al valore delle armi, ma alla “giustizia” della causa. I Ravennati, colti da disordine, volsero le spalle e furono messi in fuga, lasciando sul campo numerosi morti e feriti. La vittoria fu celebrata come un segno della legittimità delle comunità alleate e del loro diritto a difendere autonomia e territorio.

Questo episodio non va letto come semplice racconto bellico. Esso riflette il passaggio decisivo dell’XI secolo: la nascita di una coscienza civica, nella quale la città si percepisce come soggetto politico capace di stringere alleanze, opporsi a poteri maggiori e difendere con le armi il proprio ordinamento. In questo senso, la guerra del 1058 non fu un fatto marginale, ma uno dei tanti segni attraverso cui la Romagna medievale entrò pienamente nell’età dei comuni.

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