Cronaca giudiziaria del 1858: il caso esemplare di Domenico “Cavicchiola” Villa, dove il precedente diventa destino
Forlì, tarda serata del 29 novembre 1858. Nell’osteria di Pietro Benini, detto Piva, affacciata sulla strada di Santa Maria della Ripa, la cena prosegue fra vino, viandanti e il brusio tipico delle locande della città vecchia Nessuno immagina che da lì a poco si aprirà uno dei fascicoli giudiziari paradigmatici, esemplari. Ecco, quindi, il “caso Cavicchiola”.
Il protagonista è Domenico Villa, 45 anni, originario di Castel Bolognese, garzone, straccivendolo e vagabondo. Il suo soprannome “Cavicchiola” circola tra gli avventori, ma durante l’interrogatorio dirà di non averlo mai sentito. Un moto di prudenza o di paura?
Secondo la relazione giudiziaria, l’Ispettore di Polizia Angelo Vesi, accompagnato da alcuni gendarmi (Ettore Andrensi e Matteo Melatti), entra nell’osteria verso le 7 di sera per un controllo. “Quivi ad un tavolo con varie altre persone che cenavano” nota un forestiero, Villa, appunto, e gli chiede di esibire i documenti.
Di fronte alla richiesta, l’uomo esita, poi si alza con riluttanza. Proprio in quel momento, i gendarmi sentono cadere qualcosa sotto il tavolo. Il lume viene alzato. “Un lungo coltello serratojo con molla a scrocchio e punta acuminata”, si legge negli atti. Il coltello viene immediatamente sigillato e sequestrato; Villa è arrestato.
Portato davanti ai giudici, Villa, “garzone birocciajo”, dapprima nega tutto: il coltello – così giura – non è il suo, deve appartenere ad altri. Dice di essere stato arrestato solo perché gli mancavano i “recapiti politici”. Eppure quel coltello, secondo perizia, risultava “senza punta e difettoso nella molla a modo di non poter produrre male ad alcuno”. Ciò non bastò per far piombare sulla sua testa l’accusa di “delazione di coltello”, cioè l’imputazione per porto e uso illegale di coltello proibito. Nel periodo pontificio esistevano leggi molto severe contro il porto di armi bianche, soprattutto se occultate o senza autorizzazione. Il coltello serratoio era ritenuto particolarmente pericoloso, spesso associato a risse, agguati o furti.
Successivamente, Cavicchiola sostiene persino di aver denunciato in passato un’altra lama, quasi a velare quello trovato sotto il tavolo. Ma nessuno dei presenti, come Ubaldo Benini o Antonio Rustignoli, confermerà questa versione. Gli avventori dichiarano di non aver visto Villa gettare nulla, e qualcuno lascia intendere che l’arma potesse essere stata recuperata grazie alla luce portata successivamente dalle guardie. Tuttavia alcuni riconoscono quel coltello come quello trovato sul posto; i gendarmi confermano il ritrovamento ai suoi piedi; l’oste annuisce. Altri ancora, tra cui Domenico Antonio Diversi, “padrone” dell’imputato, non confermano il possesso diretto o il gesto di Cavicchiola, e sembrano quasi suggerire che il coltello possa essere stato notato solo a posteriori, grazie all’intervento delle guardie.
Villa tenta anche di dissimulare ancora la sua identità, tuttavia la giustizia pontificia lo conosce bene. Gli atti riportano un curriculum criminale decisamente corposo: condanna alla galera a vita per furto con assalto armato ridotta poi a vent’anni per grazia sovrana, un anno di lavori pubblici per contravvenzione, due mesi di detenzione per ferita, carcerazione per rissa, un’altra incarcerazione per aggressione sebbene non grave.
Il Giudice Procuratore dottor Antonio Peirani, nella sua relazione del 26 marzo 1859, conclude che, pur non essendoci prova diretta dell’atto, gli indizi e soprattutto i precedenti di Villa sono tali da confermarne la colpevolezza. Infatti, l’accusa sarà confermata: delazione di coltello proibito.
Il caso di Domenico “Cavicchiola” Villa è emblematico di una giustizia che, in assenza di prove dirette, si affida al “carattere del soggetto” per definire il colpevole. In un’osteria forlivese di fine novembre, un coltello cade sotto un tavolo. Da lì, una storia di marginalità, nomi negati, ferite mai guarite. E forse anche un’eco di fatalismo romagnolo: “Non l’ho buttato io, ma se l’ho fatto… poco cambia.”

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