Battezzato con una condanna

Il Palazzo di Giustizia di Forlì, trent’anni d’attesa per il primo processo: commenti e suggestioni dalla cronaca del tempo


A Forlì, la giustizia mostra un volto austero e un indirizzo ben noto: il suo Palazzo di Giustizia sorge nel cuore della città, in un ampio isolato compreso tra piazza XX Settembre e piazza Beccaria, fungendo da sfondo prospettico per il chiostro di San Mercuriale. Tale, allo sguardo, è l’incontro tra due idee di forma: la curva che accoglie e l’angolo che impone, la memoria e la misura, il respiro e la regola. Il contrasto è voluto. Nel 1940 si completò lo stravolgimento del chiostro, rendendolo percorribile – vale a dire: dissacrazione - come dimostra l’ultradecennale questione in ballo tra chi vorrebbe “chiuderlo” con almeno un’inferriata e chi sostiene che non sia possibile, visto che ormai “è andata così”. Il chiostro, dunque, è diventato una specie di cornice, di occhiale d’altri tempi per puntare lo sguardo sulla Giustizia e temerla. 

La sua storia, però, è lunga e travagliata, tale da renderlo forse l’ultimo, l’estremo edificio razionalista legato al Ventennio. Nel 1937, Benito Mussolini volle dare una sistemazione definitiva agli uffici giudiziari. Il Ministero dei Lavori Pubblici bandì un concorso e il 1º dicembre 1937 la commissione scelse il progetto dell’architetto romano Francesco Leoni che concepì un edificio essenziale e solenne, privo di decori ma ricco di significato, dove l’ordine delle linee doveva rispecchiare quello delle coscienze. Tuttavia, come spesso accade, la burocrazia rallentò la giustizia ancor prima che vi entrasse: tra revisioni, pareri e discussioni, i lavori iniziarono solo nel febbraio del 1939 e si fermarono quasi subito con lo scoppio della guerra. A farne le spese, dopo i primi espropri dell’aprile del 1938, fu un vecchio quartiere con perno su una strada ora scomparsa chiamata via Bagnola che venne spianato per far spazio al Palazzo di Giustizia. La via Bagnola aveva due parallele: il vicolo Gagni, detto anche via Lazzaretto (come oggi), e via delle Cordelle chiamata anche via Maiana (dalla famiglia Maiani che vi abitava), oggi intitolata ad Arnaldo da Brescia. Tra le tre, quella in mezzo, la via Bagnola, appunto, ora non esiste più, fagocitata dall’edificio del nuovo Tribunale. 

Alla fine del conflitto, l’imponente scheletro dell’edificio era rimasto al grezzo. Nel 1945, e così fino al 1959, ospitava famiglie di sfollati, cucine improvvisate e fili per stendere i panni nei futuri corridoi delle udienze, magazzini e laboratori. Per anni il palazzo, mai completato, rimase una ferita di cemento nel cuore della città. Solo all’inizio degli anni Sessanta, in un clima di rinascita e fiducia, i lavori ripresero. Con l’approvazione di una legge speciale (era il 5 luglio 1964) fu stanziata una spesa di 800 milioni di lire. Dopo decenni di attese e aggiustamenti, nel 1969 il palazzo venne finalmente inaugurato nelle sue forme attuali: una delle ultime opere del razionalismo italiano, solida e lineare, massiccia (88 metri per 53 per una superficie totale di 4650 metri quadrati di cui 4000 coperti). 

In un finesettimana, sotto la direzione del cancelliere capo Gaetano Ricci, nella nuova sede vennero trasportati 250 mila fascicoli per consentire la continuità di svolgimento degli uffici tanto che nessuna udienza civile e penale è stata rinviata. 
La Pretura fu collocata nell’ala sinistra del primo piano, l’ala destra divenne sede della Procura e della Polizia giudiziaria. Il secondo piano venne destinato il Tribunale, il terzo alle cancellerie penali e l’ufficio istruzione. Il quarto sarebbe stato il piano degli archivi. Sfogliando la cronaca di quel giorno sulle pagine ormai ingiallite del Resto del Carlino si legge: “Tutto, dai pavimenti di marmo ai mobili, dai lampadari agli infissi, è stato realizzato senza badare a spese. Le aule per le udienze sono vaste e luminose, tutte dotate di impianti di amplificazione sonora. Gli uffici sono accoglienti ed eleganti, qualcuno è addirittura fastoso. Gli ampi finestroni si aprono azionando una serie di pulsanti elettrici. Insomma: si sono fatte le cose in grande. Resta da vedere se oltre che lussuoso il nuovo palazzo di giustizia che – non dimentichiamolo – è nato vecchio, sarà anche funzionale”. Il giornalista poi lamenta  la mancanza della sala stampa: “In un edificio dalle dimensioni faraoniche, neppure una stanzetta è stata riservata ai cronisti”. Inoltre, “le linee telefoniche non sono state attivate” e “ognuno deve provvedere a spolverare il proprio tavolo e a raccogliere i mozziconi di sigarette mancando il servizio di pulizie”. 
Il 30 ottobre 1970, alle nove e mezza del mattino, la nuova sede accolse il suo primo processo: bancarotta semplice, con sentenza di condanna a quattro mesi di reclusione per due fratelli di Borghi. 
Nessuna cerimonia, nessun taglio di nastro: solo il colpo secco del martelletto del pretore Sabbatini. Il Carlino del giorno dopo scriveva: “Forlì ha ora un nuovo Palazzo di Giustizia che vale due miliardi” (al tasso odierno: 22 milioni di euro). Al momento era presente solo la Pretura, a breve avrebbe seguito la Procura e il Tribunale. Il primo ingresso a essere agibile fu quello di piazza Beccaria. 
Il 1° dicembre si poté varcare il “maestoso accesso da piazza XX Settembre”, come scriveva il Carlino, quello della Corte d’Assise di Forlì. Ciò avvenne per dibattere su un fatto di sangue avvenuto nel cesenate: un tentato uxoricidio in cui un uomo, indagato per altro di violenza carnale nei confronti della figlia, aveva tentato di uccidere la moglie di trent’anni più giovane con undici coltellate. Poi venne discusso un caso avvenuto a Forlì: un autista era accusato di aver tentato di uccidere a revolverate la sua ex amante. Altro caso a Rimini in cui, come si legge dalla stampa: “una mondana napoletana fu accoltellata al ventre per motivi di gelosia”. La Corte d’Assise inaugurata di fresco si occupò pure di tre rapine, una ai danni di una gioielleria, un’altra a una banca e a distributori di benzina. 

All’esterno, intanto, una presenza nuova e silenziosa catturava lo sguardo dei passanti. La fontana con la grande bilancia, da tempo senz’acqua e anzi colma di pietre bianche, costata 18 milioni di lire di allora. Si tratta di un’opera in bronzo dello scultore Quinto Ghermandi, artista internazionale e docente all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Reduce da biennali, premi e mostre in mezzo mondo, l’artista aveva fuso per Forlì una scultura vigorosa e tesa, dove la bilancia si staglia come un’idea: l’equilibrio precario e necessario della giustizia. 

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