Ottobre 1496: Caterina Sforza invia in Dalmazia una spedizione per ridare sapore a Forlì
Quando a Forlì si tratta di Schiavonia, viene spontaneo pensare al rione della città vecchia che si espande accarezzando il Montone fino alla porta che sorveglia l’ingresso da Faenza. Eppure qui si parla d’altrove, con maggior evidenza per il fatto che si fa cenno al “sale di Schiavonia”, appunto.
Nelle cronache del Novacula, si legge che a quel tempo Caterina Sforza “s’atrovava al molte misera de sol dinare”, cioè aveva poche risorse per sè e per Forlì, specialmente in riferimento al fatto che il sale scarseggiava, tanto che dovette inviare una spedizione sulla costa dalmata onde cercare quel prezioso elemento mancante. Ne trasse “uno sale molte grose, alquante crestaline” però “era molte copiose de sabia”. Fu proprio da lì, dalla regione chiamata Schiavonia che giunse il sale che salvò la città nel 1496 e salvò pure il “grande intrese” di Caterina in un momento di forte crisi per il suo Stato.
Per secoli, Cervia aveva dato sapore alla Romagna con il suo sale bianco e fine. Era un sale celebrato, di qualità costante, indispensabile per la vita quotidiana e per i commerci. Ma tra il 1495 e il 1497 le cose andarono diversamente. Le cronache dell’epoca ricordano un periodo di forte umidità e piogge continue che impedirono l’asciugatura delle vasche e rovinarono intere stagioni di raccolto. Le saline, allagate, non produssero quasi nulla.
Quel poco che si riuscì a estrarre finì subito nelle mani di chi poteva pagare di più: Bologna, Venezia, e gli altri stati forti dell’area padana. Forlì rimase a secco, e il problema non era da poco. Senza sale non si potevano conservare i cibi, lavorare le pelli o preparare i formaggi. La città rischiava di fermarsi.
Caterina Sforza, che allora reggeva la Signoria in un periodo già difficile, con pochi mezzi e nessun alleato potente, capì che la questione non poteva essere rinviata. Convocò gli Anziani della città, guidati da Guglielmo Lambertelli, e spiegò che non era riuscita a ottenere scorte da Venezia. Chiese il loro sostegno per cercare nuove fonti di approvvigionamento, poiché Forlì non poteva restare senza questo bene indispensabile.
Fu in quel frangente che la Tigre di Forlì propose di rivolgersi all’altra sponda dell’Adriatico.
Con Schiavonia, nelle carte dell’epoca, s’indicava la fascia costiera della Dalmazia soggetta a Venezia: una lunga striscia di porti, saline e insenature dove il sale era parte integrante della vita. Pago, Nona, Zara, Stagno, Curzola, Spalato: nomi di città che all’epoca suonavano familiari ai mercanti romagnoli.
Pago era la più ricca e attiva, con saline naturali che, grazie al vento e al sole secco, davano cristalli chiari, leggeri. Nona produceva sale finissimo, noto per la purezza, sfruttando bacini già in uso ai Romani. Zara, con i suoi magazzini e punti di raccolta, fungeva da porto d’imbarco per le navi dirette a Venezia e verso la costa occidentale dell’Adriatico. Stagno, sotto la piccola Repubblica di Ragusa, esportava verso l’Italia e i Balcani un sale più grosso, utile per la conservazione. Curzola e Spalato erano invece luoghi di passaggio, punti di stoccaggio e smistamento per il commercio marittimo.
Il sale salpava dalle località dalmate – Pago, Zara, Stagno – e, passando da Venezia, raggiungeva i porti romagnoli. Da lì, su carri e muli, proseguiva verso l’entroterra.
Quando nel 1496 Caterina parlava di “sale di Schiavonia”, si riferiva dunque a quel circuito adriatico che legava le due sponde del mare: da Pago o Nona fino a Forlì, attraversando acque e confini.
Caterina mandò in quelle terre veneziane come suo rappresentante “Zohane de Sase” accompagnato da “Ghirarde Parmesane dal mio Castelle Sam Zuane”. Novacula annota che costoro si recarono in un luogo chiamato Apole (Pola?) dove riuscirono ad acquistare quattrocento sacchi di sale schiavone. Li condussero fino a Forlì transitando dal porto di Rimini. Il 27 ottobre 1496, giorno di San Simone Apostolo, il carico giunse finalmente in città.
Il giorno dopo, 28 ottobre, si cominciò la vendita: trenta soldi la quartarola, un soldo la libbra al minuto. Per “quartarola” s’intende un’unità di peso all’ingrosso corrispondente a un quarto di staio (vale a dire, dunque, all’incirca 5 chili di sale); la “libbra”, in questo caso significa più o meno mezzo chilo.
Si sa che era un sale un po’ grosso, in parte cristallino, ma con sabbia mescolata; non perfetto, però sufficiente a rimettere in moto la vita cittadina. Per evitare abusi e contrabbando, la Signoria emanò un bando che vietava a chiunque di introdurre sale forestiero nei territori di Forlì, sotto pena di un'ammenda pari a duecento ducati d’oro. Il provvedimento fu pubblicato il 31 ottobre 1496: per quasi un anno, il sale di Schiavonia fu l’unico consumato dai forlivesi. Solo il 27 settembre 1497, quando il clima tornò favorevole e le saline di Cervia ripresero a funzionare, arrivarono nuove scorte romagnole. L’8 ottobre, i prezzi furono aggiornati: tredici soldi e quattro denari la quartarola, e metà prezzo per la libbra al minuto. Le cronache si chiudono con un semplice “Laus Deo. Amen”, come a siglare la fine di una stagione difficile e certamente insipida.
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