Il ritorno del drago di Forlì

Dal pozzo di San Mercuriale al rettile del ’69: tra leggende, avvistamenti, voci, tradizioni. Cosa ci sarà di vero?


Due millenni e mezzo anni fa, il filosofo Eraclito affermava: “Chi non si aspetta l’inaspettato, non troverà la verità”. In effetti, ciò che si leggerà qui sotto sarà forse inaspettato, o forse no, visto che sono appena terminati i festeggiamenti per San Mercuriale. Si tratterà di un argomento suggestivo, confuso tra storia e leggenda, come quella – appunto – del drago di Forlì. Drago che si lega alla figura di San Mercuriale e la cui vicenda può definirsi tra le più affascinanti della Romagna. Secondo la tradizione, infatti, il primo vescovo di Forlì, Mercuriale, avrebbe affrontato e sconfitto una creatura mostruosa che terrorizzava la popolazione. 
Il drago, vinto dal santo, fu poi precipitato in un pozzo, chiudendo così un capitolo leggendario che intreccia fede, paura e meraviglia.
Tornerà una bestia simile più avanti, sempre in ambito religioso. 
Nell’immaginario cristiano, come in quello alchemico, la salamandra era la creatura capace di sopravvivere alle fiamme, emblema di purezza e resistenza spirituale. Così, quando nel 1636 i forlivesi di una confraternita di Battuti realizzarono un carro allegorico rappresentante una salamandra gigante, non fecero altro che evocare ancora una volta quell’antico legame tra città, fuoco e creature straordinarie. L’anfibio colossale e fittizio girò per il centro storico lasciando a bocca aperta gli antenati. 

E fin qui si è trattato di argomenti già letti su questa rubrica. Eppure, saltando avanti di tre secoli, ecco che il drago riappare. Nel dicembre del 1969, diversi testimoni affermavano di aver visto nella campagna forlivese un enorme rettile dalle sembianze di dinosauro, lungo almeno cinque metri. Le cronache locali non riportano la notizia — una ricognizione tra le pagine del “Resto del Carlino” di quei giorni è risultata vana — ma alcuni testi di criptozoologia, tra cui studi successivi di Ulrich Magin, citano l’episodio tra i casi italiani più enigmatici del dopoguerra. L'ultimo avvistamento di un drago – che sia quello o un altro ancora resta un mistero -  risale al 26 luglio 1970: in un bosco nei dintorni di Forlì, fu avvistato un enorme essere squamoso, lungo almeno quattro metri e mezzo, con grosse zampe e l'alito ardente. Simile ad un dinosauro, il grosso animale, pare abbia inseguito l'avvistatore, per quasi duecento metri. Ma la stampa di allora, come per confermare il mistero, tace. 
Non sarebbe stato un caso isolato: nel 1975 a Goro, sul Delta del Po, un certo Maurizio Tombini dichiarò di aver visto “un serpente con le zampe, lungo tre metri, dal corpo spesso venti centimetri e capace di emettere un verso simile all’ululato di un lupo”. Due avvistamenti a distanza di pochi anni, nella stessa area geografica. E se non fosse leggenda?

Secondo chi si intende di questi studi, si potrebbe trattare di un Tatzelwurm, cioè verme con le zampe, come dicono gli austriaci. È talora definito il “drago delle Alpi”, una creatura presente in racconti e cronache fin dal Medioevo: un essere serpentiforme, con due o quattro zampe, una testa felina o rettiloide e, in certi casi, una peluria fine lungo il dorso. Qui le Alpi non son proprio vicine, tuttavia le caratteristiche di questa creatura propria più della fantasia che della realtà paiono coincidere. 
Gli studiosi di criptozoologia lo descrivono come un anfibio preistorico, simile alle salamandre giganti del Giappone o della Cina, capaci di raggiungere dimensioni impressionanti.
Tra i primi a trattare seriamente il tema fu Ulisse Aldrovandi, naturalista bolognese del Cinquecento, che nel suo Liber Monstruorum e nell’Historia serpentum et draconum riferì di creature bizzarre e mostruose documentate o immaginate. Come il cetaceo quadrupede con aspetto e dimensioni di leone catturato nel Tirreno e portato a Roma, o come il drago monocolo con muso da delfino preso nel mare Adriatico presso Ostuni. Aldrovandi stesso, nel 1572, riportò l’uccisione di un piccolo drago nei dintorni di Bologna: privo d’ali, lungo un metro, con due zampe anteriori e pelle squamosa.

Il mistero del drago di Forlì, secondo alcuni capace di generare i frequenti terremoti della zona, sembra muoversi su un confine sottile tra tradizioni locali e scienza. Nessuna prova certa, nessun reperto zoologico, eppure decine di testimoni, racconti coerenti, descrizioni che si ripetono nei secoli e nei luoghi più diversi: dalle Alpi svizzere alle campagne romagnole.
È interessante notare come il linguaggio religioso e quello naturalistico si siano più volte intrecciati in queste storie: il drago sconfitto da San Mercuriale, la salamandra invulnerabile al fuoco, la Madonna del Fuoco che salva la città. Tutti simboli di una lotta tra luce e tenebra, tra conoscenza e paura dell’ignoto. L’erudito Cesare Albicini ne “I miti e le leggende intorno alle origini della città di Forlì”, raro libercolo pubblicato nel 1878, paragona la vicenda del drago di San Mercuriale alla “vecchia storia del serpente Ahi, cantato nei Veda e vinto dal dio Indra” e pure “del Pitone dardeggiato da Apollo” o “dell’Idra uccisa da Ercole”. Si tratterebbe, come queste altre creature mostruose, di un simbolo “dell’azione benefica del calor solare sovra le terre incolte e acquitrinose”. 
Albicini si smarca, dunque, dall’ipotesi corrente che vede in quel drago una trasposizione dell’arianesimo, eresia sconfitta in tal modo dall’azione di Mercuriale a altri colleghi vescovi. Infatti, “non si saprebbero spiegare alcuni dei termini del mito, e cioè come il mostro venisse dai boschi marittimi (la pineta di Ravenna), e fosse gittato e chiuso in un pozzo; principio e fine ben singolare di un’eresia”. Così argomentando “tutto è chiaro se si supponga che la corrente del Viti, risalendo a causa del rigurgito del mare, avesse impaludato il terreno, e che un ben ideato emissario lo prosciugasse”.

Per terminare questa digressione che ben poco ha di elementi oggettivi e documentati, si può citare ciò che il patrizio bolognese Ulisse Aldrovandi scrisse introducendo la sua opera: “Bisogna quindi dare per acquisito che l’umana curiosità, vagando per la vastissima distesa delle cose create, possa imbattersi a volte in qualcosa che esorbita dalle leggi naturali, e che porta novità: di conseguenza, eccitata da un irrequieto desiderio di conoscere, a causa di quell’elemento ignoto la nostra curiosità viene inevitabilmente catturata da un profondo stupore”. 
Forse, dopotutto, quel drago non ha mai lasciato Forlì: dorme sotto le nostre strade, tra le pieghe delle leggende e il rombo lontano dei treni, pronto a risvegliarsi ogni volta che qualcuno osa raccontarlo di nuovo. E chissà, magari, la prossima volta che la nebbia cala su piazza Saffi, tra un lampione e l’altro, qualcuno giurerà di aver intravisto un’ombra muoversi.

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