Nel 1832, a Forlì, non sono solo i reati comuni a preoccupare la polizia pontificia: la rissa del 4 maggio e altri fatti
Rileggere oggi il bollettino interno della polizia pontificia nella Legazione di Forlì è come mettere l’orecchio sul passato. L’elenco d’apertura, invariabile, era la “gente irrequieta”: ex fazionieri, artigiani sfiancati dalla magra stagione, uomini senza mestiere che riempiono l’ozio con parole e presenza. La vera preoccupazione non è il delitto comune, ma quel fondo di fermento politico che filtra dai bassi strati proprio l’onda lunga dei moti del 1831 che avevano scosso le Romagne e parte dello Stato pontificio.
Intanto, in città c’è la guarnigione austriaca. Dopo l’insurrezione, il Papa aveva chiesto a Vienna un intervento per chetare gli animi: dal marzo 1831 truppe imperiali presidiano stabilmente le Legazioni romagnole, e l’occupazione si sarebbe trascinata negli anni seguenti. È il paesaggio politico in cui nasce e circola il nostro bollettino del 7 maggio 1832.
Per capire le parole del documento, serve una bussola amministrativa. Dal 1816 lo Stato pontificio aveva suddiviso il territorio in Delegazioni, dette Legazioni quando rette da un cardinale. Le quattro del Nord (Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna) formavano le “Romagne”, area regolarmente governata da porporati inviati da Roma. Questo spiega perché la nostra fonte parli sempre di “Legazione di Forlì” e perché la catena di comando passi da un’autorità ecclesiastica locale.
La polizia, nel frattempo, pratica il metodo più antico: sorvegliare da vicino. Si riempiono di agenti le osterie (che sono luoghi di socialità e politica spicciola), si interviene “prima” della rissa. Non è un dettaglio: negli archivi delle legazioni romagnole esistono intere rubriche dedicate a osterie, bettole e taverne, accanto a “Scostumatezza e decenza pubblica”, “Meretrici”, “Unioni e società”, e significativamente al “Bollettino politico”.
“La classe dei faziosi – vi si legge - la maggior parte inoperosa e scioperata, incomincia a rendersi molesta ai pacifici abitanti, per cui la Polizia Provinciale è costretta di farli diligentemente sorvegliare, e mandare gli Agenti di Polizia colla Forza in quelle Bettole, o ridotti dove i medesimi sogliono capitare”.
Che il clima a Forlì, in quel 1832, sia teso, lo dimostra il 4 maggio. Un gruppo con bastoni, sassi, forse lame insulta in pieno giorno chi è ritenuto di opinione opposta. Finisce senza sangue per la prontezza degli agenti, che disperdono gli uni e gli altri. I nomi riempiono una mezza pagina di protocollo: Emidio Bettini (maniscalco), Pasquale Feralli (ebanista), Vincenzo Fortunati (maniscalco), Michele Mazza (ebanista), Nicola Consolini (muratore), Antonio Zittignani (falegname), Ermente Galleffi, Basilio Gandolfi, Teodoro Vallicelli, quasi tutti ex Guardia Civica, la milizia cittadina soppressa dopo i moti. Dall’altra parte compaiono Pellegrino Danesi, Silvestro Ravajoli, e pure un canepino chiamato “Barandlone”: pure loro girano per osterie, “guardando in faccia” gli avversi giacché in tempi incandescenti basta uno sguardo per valere da miccia.
La scena più eloquente, però, non è la rissa. È la riunione serale alla forlivese: una trentina di popolani “pregiudicati in politica” nell’osteria di Vincenzo Denti. Bevono, parlano, poi il coro: “Siamo tutti di uno Stato, e di un Popolo, vogliamo tutti esser liberi o tutti morir”. E tutto questo prima degli entusiasmi del melodramma di Giuseppe Verdi: il 1832 era tempo per Donizetti e dell’Elisir d’Amore.
Il gesto successivo segna un confine simbolico: uno sputa sul ritratto di un Cardinale appeso alla parete. È questo a far scattare la leva piena del controllo: informatore, sorveglianza agli avventori, e soprattutto ritiro della licenza a Denti, perché un oste non deve trasformarsi in incubatore di opposizione. Il bollettino registra e agisce.
Sul fondo scorre il grigio del delitto comune: la rissa contadina tra Giorgio Benini e Paolo Rusticali; due giorni dopo, Rusticali muore in ospedale e Benini finisce in carcere. Ma è paradossalmente il sangue a pesare meno del canto e dello sberleffo. Per la polizia, sono questi i segnali del tempo: parole che si fanno collante, simboli che si desacralizzano, luoghi (le osterie) che diventano spazi politici.
Tutto sommato, dal Bollettino si evince che “Lo Spirito pubblico in generale per la Pro-Legazione tutta si mantiene sufficientemente buono. Le adunanze di persone pregiudicate in materia politica continuano nel Capo Luogo, però con molto cautela e la Polizia non tralascia di portare su di esse la più scrupolosa sorveglianza”.
Se s’allarga ancora l’inquadratura, la Forlì del 1832 è una tessera di un mosaico più vasto. L’anno prima, in Romagna e nelle Marche, si era tentata la fragile esperienza delle “Province Unite Italiane”, un governo provvisorio nato proprio sui territori pontifici ribelli e poi travolto dal ritorno delle armi austriache. L’ordine apparente del 1832 è il dopoguerra di quella parentesi quieta solo in superficie.
Infine, c’è il lato strutturale: uno Stato pontificio che, nella prima metà dell’Ottocento, fatica a riformarsi e a tenere insieme amministrazione, finanze e giustizia con criteri moderni, debolezze che la storiografia ha messo in luce studiando anche gli apparati contabili e di polizia del periodo. Su questa fragilità si innesta la scelta dell’ordine imposto (l’occupazione alleata, i controlli capillari) più che dell’ordine negoziato. Per concludere, la Forlì del tempo sembra far buon viso a cattivo gioco tra pattuglie e ammonizioni, nonostante il gran numero di persone seguite e osterie visitate, tra chi ascolta e chi sembra sordo.

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