Il pugno del sottocuoco

A fine estate, si riporta un elenco di fatti di cronaca della Forlì del 1859. Aggressioni, insulti per strada, tresche e percosse. Ecco un po’ di Forlì che si preparava a entrare nel Regno di Sardegna



1859: anno di transizione, che vedrà, proprio nei mesi più caldi, i passi definitivi per l’innesto del Regno di Sardegna dopo aver dichiarato, ai primi di settembre, ufficialmente terminato il potere temporale dei Papi da queste parti. Le Forze dell’ordine – e questa è storia minuta – anche a ridosso del cambio di gestione hanno continuato a raccogliere reclami e denunce della popolazione. Qui si dà un breve estratto delle voci e delle lamentele della gente comune, voci che raccontano drammi di miseria e di violenza e raccontano dal basso una città che si stava preparando a un passaggio storico importante. 

Dal Suffragio al pugilato
7 febbraio. Era circa mezzogiorno quando la moglie del conte Pietro Mangelli “insieme a due piccole creature”, dopo aver “ascoltata la messa nella chiesa del Suffragio” si diresse “per venire al di lui officio”. Lungo la strada, “certa Bendandi Maria, donna per la sua qualità conosciuta da tutto il paese, sicuramente dagli abitanti di Borgo Pio ov’essa abita nella casa del signor Enrico Casuccini, ebbe la sfrontatezza, con scandalo generale, di assalirla percuotendola nel capo”. Il Conte, davanti al fattaccio accaduto alla moglie, per un po’, rimase frastornato: per fortuna “alcuni spettatori la soccorsero e la condussero in un negozio”. 

Favelle, sassate e baiocchi
8 febbraio. Achille Brasini era titolare di una bottega “di contro al palazzo Matteucci Guarini”. Alle 3 del pomeriggio, nel negozio c’era la sorella di Brasini che stava “favellando con la Faustina Bendandi”, la tabaccaia del Rialto piazza. Improvvisamente “venne da mano incognita scagliato un sasso” contro la vetrina e “per buona sorte non colpì alcuno”. I Brasini fecero spallucce, pensando “che un monello l’avesse gettato”. Però poi giunse il bis: “venne scagliato un pezzo di brocca di terra che ruppe un vaso contenente olio di lino n.14 che era sotto al banco dell’olio d’oliva”. Un disastro: tutto il liquido si sparse per il pavimento e non “fu possibile raccoglierne un’oncia”. Il danno, dunque, fu di “scudi 1 e baiocchi venti”. Si saprà che il colpevole fu “Domenico Landini figlio di Antonio, calzolajo che ha bottega sotto al portico del suindicato palazzo”. 

Il cordoglio e il fermaglio
18 febbraio. L’antefatto è tragico: Rosa Bevilacqua era morta sul lavoro tre mesi prima. Il decesso improvviso avvenne nella bottega dove lavorava, cioè presso il Caffè del Commercio “sotto il loggiato nobile in questa maggiore piazza”. Suo marito, Pietro Zacchi, era il proprietario di quel Caffé, e dovette assistere alla disgrazia che ebbe il suo compimento verso mezzanotte. I fratelli di lei, in particolare “Matteo Bevilacqua, muratore detto Dentino”, in quel 18 febbraio si rifiutava di “consegnare e restituire un fermaglio, un pajo di pendenti ed un anello d’oro”, tutti “oggetti levati e tratti di sopra al cadavere della trapassata all’atto del suo decesso”. Così il marito faceva valere i patti: a lui spettavano “tutte le gioie della moglie” mentre ai fratelli erano stati destinati e consegnati “lo spoglio o vestiario di pertinenza della defunta”. 

Passeggiata con vituperio
8 marzo. A dire il vero non è chiarissimo questo reclamo tutto al femminile ma a quanto pare ci rimise Maria Baccarini “moglie di Luigi Contelli abitante in via Battuti sotto la parrocchia di Santa Maria in Schiavonia”. Tale Maria Baccarini “con le sue due piccole figlie e una sua lavorante per nome Clotilde Zampighi del vivente Giuseppe” stava passeggiando “per diporto” lungo “Borgo San Pietro” (l’attuale corso Mazzini). Un'abitante “sotto la Porta”, tale Lucrezia Pariziani iniziò a infamarla pubblicamente “con parole tendenti a disonorarla”. “Causa motrice” di tanto affronto sarebbe stata “la Rosa Girelli, abitante in detto Borgo San Pietro”. Maria Baccarini dunque si recò “dalla vecchia Maria, madre della detta Rosa Girelli”. Tuttavia, l’anziana donna, “invece di sgridare la sua figlia, scagliò anch’essa” contro la Baccarini “più vituperose parole infamanti”. 

Tresche in ammollo
9 marzo. La miseria non conosce sconti se le lavandaie Rosa Benzoni e Pasqua Gardelli si spinsero a denunciare Pasqua Spada e Rosa Vaibelli “per malcostume e per aver loro levato il bucato di due compagnie di linea”. Cos’era successo? Rosa Benzoni aveva cinque figli, Pasqua Gardelli era invece nubile “d’anni 34” con “genitori in età sessagenaria e inetti al lavoro”. Entrambe “native e domiciliate in Forlì” svolgevano la professione di “lavandaje pei soldati delle diverse armi pontificie”. Le due colleghe accusavano le altre due donne citate perché, pur essendo “della stessa arte di lavandaje”, esse “hanno fatto in modo di levarle gli avventori soldati di due compagnie”. Come? “Sono donnaccie di pessimi costumi e tengono di notte e giorno tresca scandalosa coi soldati nella loro casa d’abitazione situata in via del Farabottolo sotto la parrocchia della SS. Trinità”. Le reclamanti “vivevano onestamente colle loro affaticate braccia e mantenevano figli e genitori” così ora “languono, muojono di fame le due famiglie composte di dieci individui”. Perciò supplicarono le Forze dell’ordine di “far desistere alla scandolosa tresca che tengono le suddette due femmine coi militari, ed anche sul riflesso delle famiglie che ivi abitano in vicinanze delle medesime, pel pessimo esempio che danno ai figli delle famiglie circonvicine”. 

Menù del giorno: percosse
12 marzo. Giacomo Tassinari, verso mezzogiorno, stava recandosi nella casa di suo nipote Girolamo Malmesi in via delle Torri quando “fra i due muri della chiesa e convento delle Reverende Madri del Corpus Domini” accadde un grave imprevisto. Infatti “venne sorpreso dal sotto-cuoco di Casa Paulucci-Ginnasi il quale oltre avergli dato un pugno in testa, che lo stordì, seguì a maltrattarlo con altri sino alla venuta di Luigi Signorini e di altre persone dabbene che prestarono ajuto all’offeso” con la conseguenza che “l’aggressore se ne fuggì”. Il povero Tassinari “per le percosse subite, ha dovuto chiamare alla propria il Chirurgo Gherardi che già ha dato la debita relazione al Tribunale”. 

La lingua di Cleofe
26 maggio. Difficile capire che demone in corpo avesse Cleofe Ugolini “della parrocchia di Schiavonia” se è vero che “i coniugi Libero Bendandi e Maria De Angeli di Forlì” chiesero alle Forze dell’ordine che le venisse imposto “di cessare dal suo mal vezzo d’intorbidarsi la loro pace domestica insinuando dubbj, e calunniando la buona fama” delle due vittime “unicamente e sempre intenti a procurarsi il vitto per sé e figli col lavoro delle proprie braccia”. La denuncia – assicuravano – partì “non per coltivare pettegolezzi ma per ripararsi alle tristi conseguenze dell’inesplicabile condotta verso di loro della Cleofe Ugolini”. La Polizia volle vederci chiaro e interrogò la Ugolini che affermò di essere stata “provocata dagli stessi coniugi Bendandi” a mettere becco in questioni “per petegolezzi sparsi da una piccola bambina, figlia dello stesso Bendandi”. Nonostante tale versione, “è stata ammonita e diffidata di ben astenersi a dire chichesia in contrario alli petenti per qualunque motivo”. 

Conversazioni con la vedova
28 maggio. Geltrude Ricordi viveva nella casa di Michele Antonioli. Sua coinquilina era Assunta Goberti, vedova Manuzzi della parrocchia di San Mercuriale, qualificata come “donna di mala vita” contro la quale la Ricordi reclamava “un qualche provvedimento sulla condotta”, sul “contegno”. Infatti, “cotesta prostituta si può dire quasi pubblica, per l’accesso di finanzieri, soldati e paesani che di giorno e di notte, conversa nella di lei stanza”. Tali singolari conversazioni erano già note “anche al commesso defunto Vesi”, e tale “scandalo e rumore” non solo danneggiava la Ricordi, ma anche “tutto il vicinato”. Per esempio: “l’altra notte, alcuni forse sorpresi dal vivo, volevano atterrare la di lei porta, con rumore a svantaggio della quiete pubblica”. 

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