Festa al tramonto

Il 15 luglio 1481 Girolamo Riario e Caterina Sforza, diciottenne e incinta, fanno il loro ingresso a Forlì


Tra l’atmosfera festosa, una profezia sinistra s’alzò con la voce di Frate Cadino. “Quando vennero gli Ordelaffi, - disse - sopragiunse un gran vento; e questi vengono, et entrano con il fuoco: questo è segno cattivo”. 
In quella domenica 15 luglio 1481 Forlì era piena di gente: al tramonto avrebbe fatto per la prima volta ingresso la coppia sovrana: Girolamo Riario e Caterina Sforza. Varcarono le mura sotto un tramonto infuocato, cioè verso le ore 21, perché i due Signori novelli avevano voluto seguire il consiglio degli astrologi. E per far luce in piazza venne acceso un falò davanti all’attuale Municipio. Nell’entusiasmo generale, però, pare stonare il commento di quel misterioso Frate Cadino, liquidato come “scemo di cervello” da Sigismondo Marchesi, fonte principale per questa narrazione. Il “segno cattivo” pareva fugato dal motto “Servabit odorem” che campeggiava su un castello di legno “di bella architettura tutto dipinto à liste bianche, e rosse, arme antica della Città di Forlì” costruito nell’odierna piazza Saffi. 
“Il qual castello – spiega Marchesi – doveva esser combattuto, proponendosi ricco premio à colui, che fosse stato il primo à salire la torre di esso castello, nella sommità della quale era posto un gran Rosone con un Serpente a piedi, alludendo all’armi di Girolamo e Catterina”. 
Oltre al biscione e la rosa, la scritta – appunto – significa: “rimarrà l’odore”, cioè il profumo di quella rosa sarà ben conservato e ricordato dai forlivesi, nel bene e nel male (non a torto). Di Caterina Sforza, allora diciottenne e incinta, si magnificano bellezza e portamento, mentre chissà che espressione contratta avrà avuto in quei primi passi a Forlì Girolamo Riario. 
Mario Tabanelli, ne “Il Biscione e la Rosa” (1973), scrisse: “Noi non sappiamo se la grande parata della gente d’arme che accompagnò Girolamo fosse stata solo a scopo di sfarzo o perché egli non si fidasse a sufficienza dei forlivesi; questa seconda ipotesi è forse la più probabile”. In effetti, i forlivesi lo avrebbero ammazzato sette anni dopo. 

Ecco dunque che la storia propone un vissuto canovaccio di “Festa di Caterina Sforza” storicamente detta, degna di una città che punta a essere capitale della cultura: 15 luglio, di sera, con giostre e riviviscenze rinascimentali, fuochi, attrazioni anche per chi si abbrustolisce al mare. 
Caterina, “sopra una lettiga”, “pianpiano s’inviò verso la Città”. Nel percorso salutò il clero urbano, e “putti in abito bianco con rami d’olivo in mano”, e ancora “un’altra schiera di giovani nobili vestiti riccamente di drappi fregiati d’oro”. Quindi la giovane Tigre scese dalla lettiga e salì su un cavallo bianco, coperto da un manto che richiamava l’abito di Caterina: “d’argento”, ricamato “nell’estremità con perle e pietre di gran valore”. I giovani nobili forlivesi la ricevettero “sotto un ricchissimo baldacchino portato a vicenda da essi fin quasi un miglio fuori della Città”. Il corteo finalmente raggiunse Porta Cotogni dove “gli Anziani con gli Officiali del Pubblico” le porsero le chiavi della Città. 

Insomma, per dirla con Leone Cobelli, la coppia entrò a Forlì “nel nome de Marte sanguinoso” e di “Bellona crenuta”. Porta Cotogni era parata a festa con tanto di suonatori e sul Trebbo di Mozzapè (l’inizio di corso della Repubblica) era stato innalzato un arco con gli stemmi gentilizi dell’aristocrazia liviense con tanto di putti simili a “spiritelli”. A ridosso della Piazza si vedeva pure un carro trionfale particolarmente sontuoso, sormontato da personaggi forlivesi famosi del passato. A seguire, un corteo di artigiani con i quattro gonfaloni al suono di trombe e ottoni, e poi baroni e principi romani, clero, cavalieri e dottori, la fanteria con lance e barde d’oro, le corporazioni con i gonfaloni delle rispettive arti, la famiglia e gli scudieri del Riario vestiti di broccato d’argento. Infine, la coppia: lodata da giovanetti rappresentanti le Grazie. Caterina smontò dal cavallo donando il manto prezioso a uno di quei giovani mentre il marito salì in quello che oggi è il Palazzo del Comune. Nella grande sala, Guido Peppi “huomo versato nelle lingue Hebraica, Greca, e Latina – prosegue Marchesi - recitò una bellissima orazione in lode del Conte Riari medesimo; terminata la quale, levatosi il Conte in piedi, e ringratiato l’Oratore, voltossi al popolo forlivese”. A questo punto Riario è ufficialmente Signore di Forlì e procede con il suo discorso d’insediamento: dice di voler essere considerato buon padre e figliuolo della Città, chiede fedeltà ai forlivesi ed esonera dai balzelli della pesa e della porta, toglie il dazio sul grano e su altri generi. 
Dopo il discorso, si buttò in una “lautissima colatione di confetture già preparate in tanta copia” mentre si stava creando un viavai di “gentildonne venute a corteggiare Catterina”.

Leone Cobelli (facile invero a entusiasmi) rimase estasiato mentre, alla festa di ballo serale dove lui assisteva come suonatore, Caterina avanzava con in capo un turbante dal quale scendeva un lungo velo di tela d’argento con ricami di perle. E giurò di non aver mai visto un ballo tanto bello. 
Girolamo fu riconosciuto signore e gli vennero donati “vitelli, pollami, cera, confetti, biade et altre cose neessarie per l’uso domestico da par suo”. In tanto giubilo vennero aperte le prigioni, “e rilasciati gratiosamente tutti li contumaci e banditi”. 
La festa continua il giorno successivo, quando dalle finestre del Palazzo vennero gettate monete alla folla e “si combatté il castello”, quello di legno in piazza. Era difeso da 40 persone, dieci per torrione, e “da ducento assalito di fuori”. Marchesi riporta che il 23 luglio, il castello fu vinto da Francesco da Caravagio, forlivese, “il quale n’hebbe per premio cinque braccia di veluto, e quattro ducati, ma a caro costo, havendovi nell’abbattimento lasciato miseramente un occhio”. 
Seguirono altri spettacoli e si vide un giostra in campo aperto ancora il 10 agosto.

Il tutto ebbe fine il 12 agosto, quando la coppia lasciò momentaneamente Forlì per insediarsi a Imola. Girolamo sa che tirava brutta aria ed è un continuo rimuginio dalle sue parti. “Dai primi giorni in cui è giunto a Forlì, - scrive Tabanelli ne ‘Il Biscione e la Rosa’ - Girolamo fa tutto il possibile per propiziarsi il popolo: cerca di far rifiorire l’agricoltura e l’industria; incoraggia il commercio; promulga pene gravi contro gli usurai; ricostruisce la cittadella. Non ostante queste provvidenze egli non si sente amato. Esce raramente di casa, e quando lo fa, è sempre accompagnato da uno stuolo di armati”. A buona ragione, perché appena fu fuori da Porta Schiavonia i forlivesi, specialmente gli artigiani, stavano già cospirando per ucciderlo. E lui si sfogava: “Cercano d’ammazzarmi per ritornare à gli Ordelaffi lo Stato! Questo è il merito, che mi vogliono rendere delle esentioni fatte loro dei dazi. Basta: sarà quello, che Dio vorrà. Per hora non ne parlare, finché non son fuori di Forlì, dove penso di trasferirmi”. Frate Cadino forse aveva ragione. 

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