A Forlì, nella chiesa della Trinità, un piccolo monumento si lascia scoprire sussurrando la storia di un violinista
Silenzio di tomba, si usa dire per l’assenza totale di rumore, di suoni o di voci. E senza voce – caso curioso – resta un monumento sepolcrale nella chiesa della Trinità. Se non fosse per un faretto che ne dà evidenza in modo opportuno, assai probabilmente passerebbe inosservato. Il manufatto è collocato a destra dell’uscio, per chi esce dall’antica chiesa in piazza Melozzo. Come scritto, la lastra in stucco si trova nella controfacciata e, più defilata rispetto alle altre, dialoga – per così dire – con simili esempi di neoclassicismo, sicuramente più preziosi e vistosi come l’opera di Canova per Domenico Manzoni (1817) o maggiormente in evidenza come quella di Gaetano Lombardini per la povera Giovanna Galli in Preti (1840), “ottima delle spose” deceduta ad anni ventotto. Appunto, dialoga: almeno gli altri due monumenti funebri raccontano storie e parlano del de cuius. Ma la lastra di stucco in controfacciata nulla dice: ascolta soltanto o anch’essa lascia intendere qualcosa?
In rilievo si nota una figura di donna seduta, vista quasi frontalmente, che ha ai lati due fanciulli, uno inginocchiato e l'altro eretto in atteggiamento raccolto, con le mani giunte. La lastra poggia inferiormente su una fascia parallelepipeda ornata a rilievo con una cetra e un clarinetto incrociati fra rami di quercia e di alloro. Questa fascia è a sua volta sorretta da due mensole a foglia di acanto stilizzate. La stele risulta di bella fattura. Ettore Casadei, nella guida del 1928, menziona quest’opera attribuendola a Luigi Righi, datandola al 1833 e spiegando che si tratta di un monumento funebre eretto ad Antonio Gualtieri “eccellente suonatore di violino” morto in quell’anno.
Interpellato per l’occasione l’artista e docente Cristian Casadei, egli aggiunge che “l’opera presenta tutti gli stilemi tipici della cultura tardo neoclassica ma giá stemperati da caratteri piú puristi”. Sono “tipici gli elementi architettonici con la timpanatura superiore recante lo stemma gentilizio del defunto come pure la composizione scultorea in alto rilievo, con la tipica tripartizione volumetrica”. Cristian Casadei aggiunge: “probabilmente in stucco modellato, potrebbe essere un'allegoria della Pietá, con due giovani figure dolenti ai lati. Le figure presentano panneggiature tipicamente neoclassiche, si ravvisano echi canoviani in particolar modo nell'organizzazione dello schema della lapide, nel complesso, a livello tecnico, si tratta di un'opera ben risolta, corretta seppur evidentemente piuttosto accademica. Nella mensola sottostante é ravvisabile il cosiddetto trofeo con strumenti musicali che rappresentano un richiamo allegorico all'attività musicale del defunto”. Che sia una lastra tombale o un cenotafio “il nome, effettivamente, dovrebbe esserci lo stesso”. Infatti “non era affatto una consuetudine per l’epoca” non riportare nemmeno un’iscrizione: “essendo l’opera nata così, siamo in presenza chiaramente di un monumento anepigrafico”.
Desta stupore, almeno a chi scrive, che un artista – evidentemente schivo – non abbia voluto perpetuare il nome in un monumento che sarebbe stato visto anche due secoli dopo la sua morte, lasciando all’avventore l’avventura di scoprirlo attraverso simboli (gli strumenti musicali) o la schietta curiosità di approfondire, di saperne di più. In tal modo sicuramente intrigante è riuscito a far parlare di sè pure oggi il violinista Antonio Gualtieri, appartenente a una famiglia attestata nell’omonima strada tra via della Ripa e via Silvio Pellico. Dedica a lui poche righe Michele Raffaelli: “Fu eccellente strumentista, presente per anni nell’organico orchestrale del massimo teatro cittadino e della Cappella Musicale della Beata Vergine del Fuoco nella cattedrale di Forlì”. Morì a poco più di sessant’anni. Si sa inoltre che “dal suo matrimonio con Geltrude Favi, figlia di Luigi, nacque il più noto e celebre Ferdinando, organista, compositore e patriota”. Così la sua vicenda s’innesta in quella dei Favi, stirpe di organisti e compositori di tutto rispetto, pur essendo relegati specialmente all’ambito locale. Il figlio Ferdinando Gualtieri (1820-1886) combattè nelle Campagne del 1848 e ‘49 con grado di Sottotenente della III Legione e fu tra i forlivesi che si spese per difendere Vicenza e la Repubblica Romana l’anno successivo. Di lui, attraverso un quaderno degli “Amici del Teatro” del 1957, inoltre si scopre: “Arruolatosi nell’esercito regolare, prese parte alle guerre del ‘59, ‘60-’61, nel 23° e 70° Reggimento Fanteria, promosso Maggiore e decorato di menzione onorevole per la perspicacia dimostrata nella repressione del brigantaggio meridionale”. Al di là della carriera militare, di Ferdinando Gualtieri, secondo quanto scrive Michele Raffaelli, è “vasta la produzione di musica sacra e splendide sono le Messe che compose e diresse personalmente in cantoria nella cattedrale di Forlì e nel santuario forlivese di San Pellegrino in occasione delle festività patronali della Madonna del Fuoco e di San Pellegrino Laziosi”. Di lui fu famoso il Beatus Vir “che sovente echeggiò sotto le volte della cattedrale forlivese e perfino a Roma, in San Pietro al cospetto di Pio IX”. Si distinse pure come “eccellente organista e coadiutore dello zio Francesco Favi nella direzione della Cappella Musicale della Beata Vergine del Fuoco” e “notevole e assidua nel tempo fu anche la sua attività direttoriale nel Teatro Comunale di Forlì”. Suo padre Antonio, per contro, fece meno rumore e oggi si sa poco o nulla.
Nemmeno dell’artista modenese Luigi Righi si trovano ampie informazioni. Si sa che in quegli anni era a Forlì per mettere mano all’apparato decorativo del nascente Foro Annonario (come i bassorilievi sul frontone dello stesso, rappresentanti i fiumi Montone e Ronco). Così questa è una delle storie che si rivela soltanto a chi non ha l’occhio distratto.
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