Alla scuola dei poveri

 Il “San Francesco Regis”, istituzione voluta da Ferrante Orselli per dare istruzione, lavoro e speranza ai ragazzi della vecchia Forlì


Nel 1497 Forlì fu colpita da una serie di calamità concatenate: un’alluvione, una forte carestia e una pestilenza. Per sovvenire ai cittadini caduti in disgrazia per le conseguenze di quest’anno funesto, alcune confraternite, tra cui i Battuti Bianchi e i Battuti Bigi, incoraggiati da Caterina Sforza e dal vescovo Tommaso dall’Aste, si adoperarono per “formare una grande associazione di cittadini, coi denari, coll’opera, e colle parole soccorresse alla generale miseria, ed a tale associazione imponevano il nome di compagnia della carità”. Così si legge nelle “Memorie storiche intorno ai forlivesi benemeriti dell’umanità” scritto nel 1842 da Sesto Matteucci. 

Quasi cent’anni dopo, nel 1591, “fuoriusciti e masnadieri infestavano il nostro territorio, grandi terremoti avevano guaste e commosse le case, la morte colle due potentissime falci della peste e della fame mieteva le vite degli uomini orrendamente”.
La conseguenza fu un aumento generalizzato dei beni necessari al sostentamento dei forlivesi. E ciò comportò che “ai miseri era forza far pane prima di legumi, poi di gramigna mista con un po’ di farina”, a dire il vero “impasto assai gustevole al palato, ma nocivo allo stomaco”. Giunse quindi “il morbo volgarmente detto del mattone” (cioè un’infezione respiratoria acuta che causava febbre, tosse e condizioni critiche in chi ne era colpito tanto da sentirsi un peso, un mattone, sul petto) e “orrenda strage d’uomini ogni giorno avveniva nella città nostra”. Così, nella Forlì di allora “squallide torme di miseri vagavano chiedendo pane” e addirittura “vedevansi morire per le strade i fanciulli, che per l’estremo della fame venivano abbandonati dai genitori”. Secondo le cronache, in brevissimo tempo i forlivesi passarono da 20.473 a 14.614. Per reagire alla tragedia, Vescovo e Comune finanziarono e promossero “il pietoso partito di aprire un ospizio in cui ricoverare alimentare ed istruire quei miserabili fanciulli, che abbandonati per le vie della città mendicavano a stento la vita”. Una “generale congregrazione di gentiluomini e di consiglieri della città” si radunò quindi nel 1599 in San Pietro in Scotto, tra le attuali vie Pedriali e via Biondini, e nacque un’istituzione “meramente laicale” con la trazione dei Battuti Bigi. Tra tali gentiluomini sono citati Alessandro Marchesi, Bernardino Denti, Giuseppe Hercolani, Nicola Porzi, Guglielmo Lambertelli, Forlivese Savorani. 

Per tutto il Seicento, tale istituzione si manteneva attraverso elemosine, e “la patria carità fu tanta che col sopravanzo poté l’amministrazione formare alcuni capitali di censo al medesimo favorevoli ed i quali a poco a poco ne aumentarono cospicuamente il patrimonio”. Ma soprattutto accrebbe quest’opera di misericordia il conte Ferrante Orselli (1710-1766), figura tanto importante quanto dimenticata della beneficenza forlivese, che nominò come erede universale proprio quello che andava chiamandosi “Istituto dei mendicanti di San Francesco Regis”. Proprio di lui parla l’iscrizione sulla facciata della chiesa sconsacrata e di proprietà privata (difficile poterla vedere all’interno) di San Francesco Regis, tra via Pisacane e via De Amicis (già via Santa Maria in Piazza e via Misericordia). Vi si legge che il Conte si era premurato in quell’area di offrire a mendicanti casa e prospettive di lavoro, e a ragazzi sbandati, senza sostanze o senza famiglia una scuola e botteghe dove imparare un mestiere. 

Tra il 1798 e il 1799 l’Istituto divenne municipale mentre dal 1817 ne assunse la presidenza il Vescovo. 
E così, in quel 1842: “Due deputati eletti da monsignor vescovo dirigono il conservatorio, vegliano sulla disciplina e sulla morale degli alunni, del rettore, degli inservienti, ne amministrano i beni”. Inoltre “un rettore, sempre sacerdote, tiene l’interna presidenza del pio loco con molta carità e diligenza”. Egli sorveglia la “pulizia del luogo, la condotta degli inservienti” e “insegna di leggere e scrivere agli alunni, gl’istruisce nella dottrina cristiana, li punisce e o li premia”.
Gli alunni, in tale anno, erano 27 “ma l’ospizio è sufficiente per 35”. L’età richiesta è “dai 7 ai 12 anni” e “devono essere muniti delle fedi di battesimo, di vaccinazione, di salute, e di miserabilità”. 
Agli alunni veniva data “l’istruzione normale e quella dei mestieri”. Se si fosse vista qualche vocazione agli studi letterari, si indirizzava il fanciullo “alle scuole dei gesuiti”. 
In particolare, “le botteghe dei mestieri” erano state aperte di recente “nella parte che guarda la strada e la piazza di San Francesco” (piazza delle Erbe), pertanto “può dirsi che gli alunni apprendisti stan sempre sotto gli occhi e la sorveglianza del rettore”. Le botteghe erano dieci in tutto ma cinque erano pienamente funzionanti, quelle del fabbro, del falegname, del sarto, del calzolaio, del “pettinagnolo”. 
I giovani ricevevano “una piccola paga, che per un terzo è del pio luogo” e il loro pranzo consisteva in otto once di pane, tre once di minestra (riso, zuppa o pasta), sei once di bollito (manzo o pesce), frutta, mezzo boccale di vino. Inoltre, “la mattina pane, la sera un’insalata”. Si tenga conto che a quel tempo, un’oncia forlivese valeva 24 grammi. 

In San Francesco Regis erano dunque stipendiati il rettore, il maestro di carattere, il maestro di disegno, il maestro di musica, il medico, il flebotomo, il segretario, l’archivista, il cassiere, il contabile, il fattore, il magazziniere, il custode portiere, il cuoco, il governante. 
All’interno dell’istituto c’era un dormitorio “vasto ed arioso” con 35 letti “tutti separati, sopra piedi di ferro, composti di pagliariccio, capezzale, e due lenzuoli nell’estate, e due buone coperte di lana nell’inverno”. Vi era inoltre “un piccolo orticello ed un cortile a sollazzo dei giovani”. 
L’istituto pagava il vestiario: per l’inverno una “giubba, calzoni e corpetto di panno misto”, se poi “vanno al passeggio o alle funzioni” si aggiunge “il ferrajolo, il cappello nero e le calze pur nere”. D’estate gli abiti erano “di canepa a spina di colore verde cupo” e quando uscivano indossavano “una veste lunga di canepa a spina di color nero, calze nere, e cappello nero rotondo”. Tuttavia, Sesto Matteucci auspica che tale vestiario sia ben presto cambiato “in altro di men brutta apparenza”. 
Gli orfani erano vestiti con altri colori, caratterizzandosi per il “mattone” per l’inverno e il bianco per l’estate. Tra altre cose, veniva richiesto ai fanciulli di fare presenza ai funerali ricevendo una piccola somma. Inoltre i più meritevoli erano premiati con medaglie o libri. 

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