Un famoso giocoliere mutilato, alla fine del Quattrocento giunse due volte a Forlì. La seconda fu un fiasco
“Antonio da Reze Nane vene a Forlì” è il titolo di un curioso paragrafo delle cronache di Andrea Bernardi detto Novacula. Le righe che seguono dettagliano un personaggio che deve aver lasciato a bocca aperta i forlivesi a cavallo tra Medioevo e Rinascimento. Se si chiudono gli occhi e si ascolta la lingua del cronista ci si può immergere in una sorta di mercoledì estivo tra saltimbanchi e giocolieri. Qui, però, il protagonista è solo uno: Antonio, Antonio Zanotti di “Reze”, forse Reggio Emilia, forse altra località ascrivibile, in senso esteso, alla Lombardia. Famoso in tutta Italia per la sua abilità pedestre, noto per presentarsi con una corte di famigli, due cavalli, uno stendardo nel quale lui stesso era ritratto seduto al centro di una serie di quadretti che lo raffiguravano impegnato nei vari esercizi.
Così scorre davanti agli occhi, come ebbe a scrivere Sergio Spada in un articolo su “Il Resto del Carlino” del 19 luglio 1989, il “ritratto di un personaggio che può essere preso ad emblema di una serie di figure che popolavano e caratterizzavano nel loro passaggio le piazze ed i crocicchi delle città di quell’epoca: guitti, giocolieri, saltimbanchi, mostri e fenomeni”.
Ecco dunque come Novacula descrive Antonio Zanotti nel 1498. La sua statura misurava “dui pede e meze” (cioè un metro e venti), e “aveva una bela testa come una zazara canuta”. L’età stimata: “cerca anne 60”. La caratterizzazione prosegue come di rado nelle parole del cronista: “et aveva uno belle colle proporcionate, come una bela faza”. Era di buona parlantina, cioè “una expidita loquella” con cui raccontava di aver passato l’infanzia presso la corte del Duca di Milano per poi girare in lungo e in largo l’Italia guadagnando soldi a palate. Tuttavia “non aveva braze né mane”, una protesi, cioè un moncherino, un mozzicone (“mucigone”) le sostituiva. Le sue gambe erano corte ma i piedi grandi, girava vestito con camicie “bene ornate”, come un giubbone di seta “come una ghavardina di cilestre”.
Con quel moncherino maneggiava con tanta destrezza la lancia facendola ruotare intorno al volto e al collo in modo che sembrava vi fosse incollata. Non solo: sapeva far la punta a una penna e con essa scriveva con “li soi dite di pede” versi in latino in italiano, ciò bastava per lasciare intendere il censo elevato da cui proveniva. Suo padre, infatti, doveva pur essere un “gram richo” se si era potuto permettere la “schola” per il figlio! Lanciava sassi e coltelli sempre con l’ausilio degli arti inferiori cavandosela piuttosto bene; allo stesso modo riusciva a infilare una cruna d’ago e cucire. Riusciva in ogni gioco, tanto che il piede pareva “uno manghano”. Forse stancatosi di tutte queste descrizioni, Novacula taglia corto: “Et faceva molte altre cose picole che io lase per mazore brevità”.
Fu in due occasioni a Forlì: la prima volta “quande l’era andate nel riame de Napole multe anne prosime pasate”. In quel luglio 1498, invece, era visibilmente caduto in disgrazia se Novacula scrive di temere “che ancora lui non vada a morire nel spitale se ‘l so parentato non l’aiuta”. Ormai vecchio, senza drappo, con un solo famiglio, non gli fu concesso esibirsi. La sua fama era diventata infamia: su di lui gravava un pessimo giudizio e venne cacciato dai trebbi. Ciò perché preda di tutti i vizi “de queste mondo”. Soprattutto però veniva considerato “patre della superbia”. Proprio per tale “male fare”, Novacula conclude dicendo che “sopra de lui” c’era “cativo iodicio”. Il cronista prende le distanze dalle dicerie del popolo o chiede misericordia per quel povero derelitto, concludendo il paragrafo, riferendosi al "cativo iodicio" con: “Deo voia che io menta”.
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