Meteorite a San Mercuriale

All’epoca di Caterina Sforza fu donato all’abbazia forlivese un pezzo di un grosso meteorite caduto nei pressi di Valdinoce

“Uno certo nuvolo bianco in lo ciel sereno” cui seguì un “gran terrore”. Questo, secondo le cronache di Leone Cobelli, sarebbe accaduto nell’Appennino forlivese il 26 gennaio 1496. Precisamente a Valdinoce, nelle colline attorno a Meldola, suscitando un boato lungo dodici tuoni ravvicinati che si avvertì in tutta la Romagna. 

Ciò, come riportato da Sigismondo Marchesi, alimentò la leggenda che il fenomeno fosse una “strana vendetta contro i mortali” quasi a giustificare la reazione violenta di Caterina Sforza contro i suoi nemici. Secondo lo storico, infatti, si trattava di un “prodigio” che risultò essere “molto portentoso e horribile”. Alle ore 14 di martedì 26 gennaio apparve “dalla parte orientale una certa nuvola bianca quadrata” che “da terribile furia di vento” era sospinta “verso Austro”. Qui “scoppiò in dodici tuoni spaventosi accompagnati da folgori così grandi, che parve s’aprisse il cielo e avampasse la terra”. Ne scaturirono “pietre infuocate” che cadderno “intorno a Valdinoce un miglio” e “ne furono trovate alcune”. Il Conte Astorre, “ritenuta la maggiore per sè”, donò le altre pietre venute dal cielo a Caterina Sforza “come cosa maravigliosa e singolare”, e “a Monsignor Tomaso dall’Aste vescovo di Forlì, che stava a quel tempo in Meldola”. 

La maggiore, quella del Conte Astorre, pesava 12 libbre: se una libbra forlivese corrisponde a poco meno di 330 grammi, il meteorite originario raggiungeva 4 chili. Ciò suscitò grande clamore e nel luogo dello schianto si radunarono parecchi curiosi. Il 30 gennaio si aggiunse pure il cronista Andrea Bernardi, detto Novacula, inviato da Caterina Sforza a capire qualcosa di questa strana faccenda. Fu così che la terza pietra, dal peso di poco più di un chilo, venne donata al Vescovo di Forlì. Alcune rocce erano di forma triangolare, mentre altre avevano una scorza di color ferro levigato, con attorno una serie di crepature. Altre pietre assomigliavano a perle ed erano durissime da rompere. Su consiglio di Andrea Bernardi, il meteorite da 12 libbre fu spezzato in più frammenti e uno dal peso di 451 grammi fu donato alla Tigre di Forlì. Novacula poi mostrò i frammenti a Paolo dall’Aste, vicario episcopale, all’Abate di San Mercuriale, a monaci, medici, banchieri e aristocratici locali, tutti “homine digne di fede”. Secondo i testimoni, le pietre dovevano essere dodici, pari quindi ai tuoni sentiti prima della caduta. In questa circostanza, dunque, uno tra i meteoriti caduti a Valdinoce fu accolto nell’abbazia di San Mercuriale. 

Secondo Leone Cobelli, tale fenomeno sarebbe presagio di “molti aversitati e molti persiquicione e dolorosi avenimenti” come “guerre, carestie e morìe”. Aggiunge che “in quello strepito” sembrava che nell’aria ci fossero “canpani che sonasse”, che addirittura il fenomeno “fe’ tremare tucta quella montagna e loco”. Il boato, simile a quello di “una comune spingarda” durò un quarto d’ora. Per confrontare a posteriori se i presagi funesti di Cobelli abbiano avuto un seguito, si possono riprendere in mano le cronache del Novacula e leggere una sintesi dell’anno 1496. Si scopre che il 17 febbraio il “vento meridionale” tirò così forte che “butò per tera la tore e la campana dela nostra citadella, overe la murata”, cadde perfino “la testa de dom Pavagliote” che, com’era uso dopo le esecuzioni, era conficcata in vetta alla torre civica. Il 10 aprile “venne una gram pioza” che travolse e distrusse “le nostre chiuse dale muline” e fece crollare “al ponte da Bagnole”. Altre calamità riguardarono “al vente meridionale, alias corina” che durò quattro giorni consecutivi in modo tanto intenso da abbattere alberi. In seguito comparve “una malatia nova non mai più vista” che dalla plebe era chiamata “male franciose”; i medici, impreparati, non sapevano come alleviare le sofferenze e curare i malati. Il 7 giugno, inoltre, nei pressi di Vecchiazzano (“nela Vila de Casa Figaria”) cadde una “saieta dal ciele” che “amazò cercha 83 tra porci e capre e pegore”. L’autunno portò altre disgrazie: un’alluvione che distrusse il ponte di Schiavonia, sostituito alla benemmeglio da “uno pontiselle picole e base”. Il 19 novembre “se trovò una rosa bianca” a Forlì, sebbene “non odorifera”: “fu vista da chi la voleva vedere che aveva la vista”. 



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