Luci e ombre tra marzo e aprile

Una processione luminosa e una tassazione fastidiosa: la primavera del 1491 iniziava così in quel di Forlì

La Cittadella di Ravaldino in un'immagine del 1964

Un gran corteo religioso vide terminare il marzo del 1491: era giovedì santo e “se fe’ una processione del Corpo de Cristo”. Si snodò dalla Cattedrale in direzione del “burgo grande” (cioè il tratto di corso Garibaldi tra piazza del Duomo e il Rialto piazza), giunse nel Campo dell’Abate e volse verso via delle Torri (“per sancta Maria in piacia”) per tornare in Cattedrale. Il cronista Leone Cobelli, lì presente, non manca di citare che in processione spiccava Ottaviano Riario, “signore de Forlivio e d’Imola”, con “molti scudieri e ragaci tucti con duppieri in mani de cera bianca”. Per doppiere s’intende un candelabro a due bracci o semplicemente una doppia torcia di cera. Seguivano “doctori e citadini, artisani”, sempre con doppieri in mano e “tucti li donni”, cioè i signori possidenti. Una particolarità, questa, che lasciò a bocca aperta per la luce che irradiava tale funzione che risultò essere particolarmente sentita. 

“Io non nomerae già el numero de duppieri – ammette Cobelli - ma credo certo forono più de dui cento”. Il vicario del Vescovo portava “el Corpus Domini” e i canonici “lo tabachino”. In Duomo, predicò “uno frate Bartolomio de l’Osservanza de san Francesco”. I duecento doppieri rimasero in Cattedrale una volta finita la funzione per poi direzionarsi verso le case degli infermi per la consegna dell’Eucaristia grazie alla compagnia del Corpo di Cristo”. Fu poi stabilito che “la prima domenica del mese” (di aprile) si sarebbe dovuta celebrare una messa “illominata con molti de quilli dicti duppieri”. Leone Cobelli, testimone della processione luminosa, spera che “la dicta divocione vaga innacze per secula seculorum” ma tale tradizione si perse nel tempo. 

Passò qualche giorno, arrivò aprile, e Caterina Sforza ordinò agli “anciani del conseglio” di “purre una colta sopra al populo de livre cinque milia”, cioè una tassa di cinquemila lire. Il cronista Leone Cobelli non manca di ammettere che si sollevò “un poco de murmoro” tra la gente per “quello pagamento”. A cosa servivano quei soldi? Per costruire “caselletti” ai piedi della cittadella di Ravaldino “per mectere i soldati”. Che furono fatti “con fossi atorno” perché la Tigre, manco a dirlo, aveva “hoctenuto si pagasse”. Dentro e fuori le mura furono fatte stime per ottenere il dovuto dalle famiglie, senza troppe storie. 

Forse anche per questo scopo Caterina Sforza, “la nostra magnifica madona”, fece allestire “casette” ai ponti del Ronco e di Bagnolo per pagare il “dacio del passagio” con esattori poco graditi come “Cristovano dei Porchi, homo crudo e inico” o “Cristofano da Fenza” che “per sua robostia e superbia fo illì amaciato uno suo fratello per volere far pagare più che el debito”. 

A dirla tutta, il ponte sul Ronco, già in pietra, era stato rifatto con una struttura provvisoria in legno poi travolta dalla fiumana quindi il passaggio tra Forlì e Forlimpopoli avveniva con un ponte di barche. Il passaggio valeva “uno quatrino” e, poco o molto che fosse, serviva per rimpinguare le casse. Si spera che la vasta area della cittadella occupata oggi dagli edifici ottocenteschi della Casa Circondariale possa essere nei prossimi anni, previo spostamento del carcere al Quattro, fruibile a forlivesi e forestieri; tassello fondamentale per rendere questa una “Città della cultura”. 

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