Un aristocratico direttore della biblioteca forlivese pubblicò sotto pseudonimo varie centurie di felici e lodati epigrammi
Lo stemma dei Merlini sul portone del palazzo forlivese di via Maroncelli
Era un giorno del 1888 quando a Forlì, su un tavolo della Biblioteca comunale, apparve un foglio vergato da un suo vecchio direttore ormai morente. Dentro vi si poteva leggere:
“Lucian Montaspro all’ ultimo momento
S’induce a fare qui suo testamento:
La roba a chi la va, la carne e l’ossa
Con bara o senza bara, entro una fossa:
Meglio cremarmi; ma qui c’è un intoppo:
Che il forno non l’abbiam e costa troppo.
Dunque la bara, e per la via più corta,
Senz’ uopo di far lume a chi la porta ;
Senza rumor di bronzi sturba quiete,
Senza leggende e fiori e senza prete.
Ad esso, seguiva un “Codicillo”:
E quanto al rendiconto dell’azienda
Chiamate un qualchedun che se n’intenda:
Se non son creditor in gran partita,
Ch’io possa ritornar fra voi in vita!”
Si trattava delle estreme volontà in versi del marchese Ludovico Merlini, ultimo esponente della nobile famiglia forlivese, nato nel 1815. I Merlini detti anche Zotti diedero famosi cardinali (tra cui un omonimo Ludovico) e vescovi. Tra le loro residenze si segnalano il palazzo – ora sede del Circolo Democratico – in via Maroncelli, e la “villa Norina” a Bertinoro.
Per lunghi anni, Ludovico Merlini diresse la Biblioteca comunale di Forlì e venne riconosciuto come autore eccellente di epigrammi scritti con lo pseudonimo Luciano Montaspro. Una forma letteraria antica, quello dell’epigramma, che nell’Ottocento celava istanze di satira o di sguardo critico e ironico sulla realtà. Versi brevi e taglienti, atti a farsi beffe dei potenti, vere e proprie punture. Antico anche lo pseudonimo, quasi da accademico dell’Arcadia; in realtà pare più che altro riferirsi all’Aspromonte, al Risorgimento, vista anche l’evidenza di anticlericalismo che emerge molto spesso tra tali versi. Una vecchia sua referenza lo definisce “mente acuta e cuor generoso”, “uscito da parecchie rivoluzioni con larghe e feconde lezioni di esperienza”. Pur avendo mantenuto “santi ideali della umanità e della patria” fu “deluso degli uomini, che non aveva trovato pari ai grandi avvenimenti”. Testimone delle turbolenze ottocentesche, dal suo studio in Biblioteca trascrisse le sue “gravi considerazioni” secondo lo “svolgersi dei casi d’Italia”, specialmente su “quella metamorfosi che si va compiendo in tutti gli organi della società nostra dal 1859 in poi”. Cifra stilistica dei suoi epigrammi, dunque, è la “mestizia”, mestizia “ch’è forma di delusioni amare e di fervidi desideri coi quali aveva lungamente aspirato al trionfo infallibile di ostinati e concordi speranze”. Queste righe, tratte da un articolo datato 1889, a firma De Donato-Giannini, estratto dalla Rassegna Pugliese di scienze, tracciano quei pochi indizi che oggi si possono trovare sull’uomo. Più avanti, Raniero Paulucci di Calboli ne scriverà, in francese, un breve saggio, lamentando il fatto che il forlivese fosse caduto nell’oblio, fino a diventare un grande sconosciuto della letteratura.
Difficile infatti trovare altri studi, ulteriori approfondimenti. Vi è però testimonianza del favore che incontrava presso i letterati del tempo. Luigi Settembrini, scrittore e patriota di origini napoletane, per esempio, paragonava gli epigrammi di Montaspro a scatolette di fiammiferi di buona qualità “che accendono subito e fanno poco rumore e molta luce”: “Qualcuno – ammetteva – non accende in prima, ma al secondo o al terzo colpo caccia la fiammella”. Iscritti al registro degli estimatori risultano anche il critico letterario Adolfo Borgognoni e l’amico Cesare Branco, garibaldino dei Mille poi deputato, che soleva passare l’estate a Forlì.
Gli epigrammi del marchese, raccolti in sei centurie, appaiono come componimenti originali e personali anche se non sempre di facile comprensione e di forma gradevole. Luciano Montaspro si cimentò pure nella lirica popolare con “Il povero Giacò”, altro testo introvabile, sorte che lo accomuna agli epigrammi mai ripubblicati da allora. Date queste premesse, si coglie l’occasione per riportare qualche verso significativo del marchese forlivese.
Così, nel 1840 scrive:
“Fu chiesto a Gianbattista
profondo pubblicista,
quai fosser nei governi bene intesi
Quattrini meglio spesi;
Rispose: quei quattrini
che si lasciano in tasca ai cittadini.”
Nello stesso anno se la prende anche coi medici:
“Perchè il polso ha Dalinda un po’ frequente,
la visita un Dottor frequentemente.
Si domanda: è pericolo maggiore
la frequenza del polso, o del dottore?”
Ecco ciò che pensa, “in diretta”, dei moti del 1848:
“Repubblica, repubblica!
Andavano vociando
nel quarantotto i popoli,
certi pali per alberi piantando.
Io mestamente chiesi: cari amici,
oh! che piantate, se non han radici?”
Montaspro ne ha pure per Leopardi per il quale scrisse questi versi nel 1839:
“Grande Recanatese! De la vita
la nullità dimostri
con sì studiati inchiostri,
con facondia sì classica e forbita,
da farmi – scusa – accorto
che vivere tu vuoi anche da morto.”
Un piccolo riferimento a un esercizio di Forlì, collocato all’angolo tra le attuali piazza Saffi e via delle Torri, è così ritratto nel 1854:
“Il così detto Botteghin del lotto
ch’era ab antiquo sul canton del Gallo
ho visto ieri, se non cado in fallo,
a negozio di trappole ridotto:
entra, dilettanti, come pria:
cambiò il mercante, non la mercanzia.”
Altro bersaglio di Montaspro fu Vittorio Emanuele II, nel 1863:
“A caccia un cavalier voltosi al re,
d’un sigaro lo prega.
Vittorio aprì l’astuccio rispondendo:
un sigaro e una croce non si nega.”
E nel 1872:
“Quando a Torino fu la capitale,
il re batteva altrove lo Stivale.
Quand’essa fu ne la città di Flora,
non vi faceva il re lunga dimora.
Di Roma alfin la capital si fa?
Per tutto incontro il re, di rado là.
È cacciator! Sta ben; ma par dimostri
voler cacciar le bestie, e non i mostri.”
Uno sguardo sulla politica internazionale così è descritta nel 1836:
“Nel mondo il mio paese à dominato,
un europeo diceva,
perché è quel de gli Uomini di Stato;
ed un americano rispondeva:
e il mio convien che in avvenir domini,
perché quello è lo Stato de gli Uomini”.
Nel 1849, lasciò un’amara constatazione:
“Pieno di libertà la mente e il petto,
nel grande incendio rivoluzionario
la mia poca favilla anch’io projetto.
Cade il Tiranno… Questo fu il divario,
che d’uno invece mi trovai vicini
tanti tiranni, quanti cittadini”.
Contestualmente, prendeva di mira personaggi allora comuni:
“Un vecchio Professor d’agricoltura
lasciò per testamento di volere
senz’altre cerimonie sepoltura
sotto le zolle del suo bel podere.
Quel podere in tal giorno solamente
sentì d’appartenere ad un sapiente”.
E così nel 1858:
“Un sacco di sapere,
qual dicon quel Messere,
perché stia sempre in letto tu mi chiedi?
Un sacco vòto non può stare in piedi”.
Commenti ai fatti conseguenti alla breccia di Porta Pia e al Concilio Vaticano I, in quel 1870:
“Il Papa a un Cardinale:
che fia di noi, finito il temporale?
A lui quel Cardinal di senno pieno:
finito il temporal, viene il sereno”.
E ancora:
“Diceva il Papa a un Cardinale in petto:
prima di darti il Berretto,
una cosa da te saper vorrei…
rispondimi sincero;
che infallibile io sia credi da vero?
E quel Prelato: io sì, lo credo, e Lei?”
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