Carnevale 1498: tra banchetti opulenti e feste nelle case, gli ultimi balli della piccola signoria alla fine della sua storia
Ottaviano Riario e la Rocca di Ravaldino
Festa vivace e popolare nella Romagna del Rinascimento, il carnevale rappresentava un periodo di eccessi, divertimento e sovversione temporanea delle regole sociali. Era inoltre il momento in cui si consumavano grandi quantità di cibo prima del periodo di digiuno della Quaresima. È Andrea Bernardi detto Novacula che ci consegna la cronaca del felice carnevale forlivese del 1498, giorni che ci consegnano un “signore Hotavigliano” festaiolo e con una “gram familiarità come nui dite so popule”. Il cronista, dedicando a essa un paragrafo, lascia intendere che la festa di quell’anno fu eccezionale, ben più di quanto si sarebbe aspettato.
“Hotavigliano” è Ottaviano Riario, figlio di Caterina Sforza e Signore titolare di Forlì e Imola dalla morte del padre Girolamo avvenuta dieci anni prima. In quei giorni del 1498 aveva diciott’anni e benché nel profilo tanto simile alla madre, con lei condivise pallidamente le redini dello Stato. Ebbene, il nostro “Hotavigliano” concesse che ogni cittadino si dedicasse “a fare hogni zorne una festa che durase al zorne e note”. In queste feste di carnevale “lui andava al dì e note vestite da maschara de compagnia deli soi fratelle e sorelle”. Sarebbe interessante capire quale fosse la maschera preferita da Ottaviano, ma non sono sopravvissute testimonianze.
Il risultato fu una gozzoviglia totale, con “varie colacione coperte e dischoperte” in “hogne case”, per rendere merito al “grande amore e carità”, caratteristiche attribuite al giovin Signore. Tra tutte questo brillare di feste si distinse quella di “Iacome Fanchino mercadante” ma anche lo speziale dal nome evocativo: “Cortison” non fu da meno il 20 gennaio di tale anno. E in ultimo, strafece Luffo Numai, con addirittura due ricevimenti, l’uno dietro l’altro, se lo poteva permettere. Con ciò, i pranzi festosi furono circa 45, “come quela che fe’ sova Signoria e quela che feze M. Zoane deli Dipintore da Imola so Adiutore” nella cittadella di Ravaldino. Difficile capire cosa stesse facendo, nel frattempo, Caterina Sforza in quanto il cronista omette ogni riferimento sulla Tigre.
Queste feste carnevalesche durarono dal giorno della “zobia grasa” a quello del “marte lupe”, ognuno collaborava come poteva “seconde le lore posibilità”. Di certo, che per tutto tale periodo “se balava al dì e la notte”. Chi si sobbarcava l’onere di organizzare banchetti e festeggiamenti, però, andava incontro a spese salatissime giacché avrebbe dovuto sfamare “cente boche” in quanto erano tenuti fornire la cena anche “ale balarine”. Insomma, ogni cosa era diventata carissima, “pure tute cose delicate”, per esempio, le “ove” costavano ben “uno quatrine l’une”. Segno, questo, forse di una crisi propria di uno Stato in declino, la piccola signoria di Forlì e Imola che avrebbe avuto ancora meno di due anni di vita.
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