Piove da 75 giorni!

Un diluvio di proporzioni immani fa saltare chiuse e danneggia i molini di Forlì. Una città di invidiosi e litigiosi


Riferiscono le cronache che nel gennaio del 1435 “per molte piove” si “guastò el canale”. È Giovanni di Mastro Pedrino che, puntuale nel riferire pressoché ogni cosa della Forlì del suo tempo, dedica spazio alle avverse condizioni meteorologiche di allora. Sulla città di Antonio Ordelaffi, infatti, si aprirono le cateratte del cielo. Un “diluvio de aqua”, ovvero una “maravigloxa piova” ebbe inizio alle nove del mattino del 2 novembre e durò fino al 16 gennaio: 75 giorni con l’acqua a mezza gamba. Vero è che due anni prima, cioè nel gennaio del 1433, secondo fra Girolamo da Forlì la città si era ammantata di neve dall’Epifania a Sant’Antonio, cioè circa dieci giorni per patire “frigore magno et sole occulto”. Nulla di eccezionale, forse, se Giovanni da Mastro Pedrino non ne farà menzione. 

Tornando invece ai giorni di pioggia straordinaria del 1435 – precisamente il 14 gennaio – si colloca tra parentesi una vicenda di cui fu vittima Giacomo Palmeggiani, “homo assae digno, famoxo in la arte de medixina” (sebbene non proprio uno stinco di santo) e tanto introdotto nonché “partixano del signore” da essere commensale abituale di Antonio Ordelaffi. Insomma, non avrebbe mai esclamato: Piove, Governo ladro se al timone di Forlì c’era la stirpe dalle branche verdi. Tuttavia cadde vittima di un intrigo che rese un prezioso mantello un brandello (fu “taglado e forado in più luoghi” dopo essere stato riempito con “molta stoppa”). Nel biasimo generale, tale parve il prodotto dell’invidia, a detta del cronista “una disonestade uxada non so da chui fatta”. In città si dava la colpa a “Zohane de Paxetto” che, essendo “un pocho descordevole” con Palmeggiani, sarà punito ma non a sufficienza, secondo il solerte “depintore” cronista Giovanni di Mastro Pedrino. 

Per risolvere il problema della “maravigloxa piova”, nel frattempo, era stata proposta una processione della durata di tre giorni “in la quale fo portado multi reliquie e massimamente la testa del nostro glorioxo san Marchurale”. Il cranio del Protovescovo era collocato “in uno tabernachulo d’ariento molto magnifficho” nuovo di zecca, tanto che risultò essere la prima volta che “fosse portado intorno” tale reliquiario. Era conservato nella chiesa della Trinità, come oggi ove lo si vede nella sua versione più recente, datata 1575. Per l’occasione venne celebrata la messa in piazza ma “prima che fosse fornida la messa fo el tenpo cunco e venne el sole” che significa che prima dell’Ite missa est, le turbolenze atmosferiche si acchetarono, smise di piovere fino a rischiarare nel sereno. 

Successivamente, prosegue il cronista, vennero sistemate chiuse “e moline e canali”. Molini che fruivano dell’acqua sottratta dai fiumi attraverso le chiuse per alimentare i canali. In particolare, dalla chiusa di Calanco (a San Lorenzo in Noceto) ha inizio il canale di Ravaldino mentre in quella di Feragano (tra Ladino e Villa Rovere) nasce il canale di Schiavonia che si vede in fregio a via Firenze fino a riversarsi nel Montone all’altezza del cimitero dei Romiti. Lì, circa un mese prima dell’inizio del grande diluvio, era morto un settantenne, tale Achille, ucciso schiacciato dal cavallo che era sdrucciolato nel canale in secca. Molini e chiuse – neanche a dirlo - erano motivi di liti continue perché determinanti l’economia cittadina. Infatti, a causa di danneggiamenti dolosi e colposi, o provocati dagli agenti atmosferici, in quel gennaio del 1435 macinare era una “grandissima pena”. 

In particolare, dopo il grande diluvio venne ristrutturato “uno molino di Fiorine” (forse Lorenzo Fiorini, abate di San Mercuriale) che si trovava “sovra quello del conte”. Questo molino, tuttavia, “fo per altri tenpi guasto, perché teneva tuti gl’altri guasti”, cosa che aveva cagionato “assae discordia” con “quigli da la chiuxa”. A ulteriore prova di un clima, oltre che di pioggia, pure d’invidia e litigi nella Forlì della prima metà del Quattrocento. 

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