Nuvole a fuoco

 La Patrona tra natura e metafisica: prodigi di una festa che dovrebbe durare più di un giorno soltanto

Rielaborazione di un'immagine tratta dal "Fuoco trionfante"

Che sarà successo in cielo in quel 20 ottobre 1636? Giuliano Bezzi, nel testo già in queste pagine citato dal nome “Il Fuoco trionfante” pubblicato nel 1637, racconta che, in concomitanza con la grandiosa processione della traslazione della Madonna del Fuoco, nel cielo di Forlì si manifestò un segno. Espediente narrativo? Particolari iridescenze nel tramonto? Allucinazione collettiva? O accadde altro?

Bezzi afferma che “finito il passaggio felice delle Macchine”, cioè i carri sontuosi delle confraternite che avevano sfilato in quel giorno, “fu osservato nel Cielo trà la Catedrale e ‘l Palazzo publico” (cioè, verrebbe da pensare, su via degli Orgogliosi - via delle Torri e quel tratto di corso Garibaldi) “una nuvoletta così infuocata” che “sembrava il rogo solito dipingersi in terra sotto la nostra Madonna del Fuoco”. La similitudine sfugge ai viventi in questo secolo, vero è che “Monsignor Presidente” e “Monsignor Governatore” rimasero a bocca aperta. Il primo “mostrò con dito l’infiammata nuvoletta” al secondo dicendogli: “Mirate, come anco il Cielo applaude co suoi fuochi alle feste che si fanno quaggiù da noi in honore della Madonna del Fuoco”. Infatti, tale “iride miracolosa” sembrava non voler “compire il suo giro senza le nostre meraviglie”, quasi – par di comprendere – andando anch’essa in processione. Processione che durò fino a tardi, tanto che le “due ali” di fedeli “con lumi accesi” rischiaravano “le tenebre della notte che già ingombravano il tutto”. 

Questi toni anche ampollosi, simili a volute barocche, possono generare sogghigni in chi vive in un’epoca tanto disincantata quanto paranoica come l’odierna. Eppure la lettura dei segni, la commistione tra natura e metafisica si nota anche quando, alla benedizione dell’Immagine mariana per mano del Vescovo, il popolo aveva preso a battersi il petto. “Al picchiarsi di tanti petti – si legge nel testo citato – strepitò unito, e continuato, un tuono”. Cioè “un tuono innocente, sicuro contrasegno che per l’avvenire” i forlivesi udranno “tuoni non più fieri furieri di folgori, ma paraninfi di pioggie feconde” tanto da rendere “la Città di Forlì intatta da qualunque fulmine dell’Ira celeste”. E chi allora era presente, assisteva al tutto col cuore colmo di “stupore” e “dolcezza”. 

Occorre aggiungere che la grande giornata del 20 ottobre 1636 era iniziata essa stessa con un prodigio. Per tutta la notte precedente era caduta “una pioggia così densa che smorzò la speranza a tutti della sospirata solennità” mettendo a dura prova archi in legno e costruzioni fatti apposta per l’evento, c’era chi li dava per spacciati, irrimediabilmente compromessi e inzuppati d’acqua. Tuttavia “giunto à mezo mattino, il Sole cominciò a flagellare co’ raggi, e dar la fuga alle Nubi tuttavia pioviginose, e ritirantisi in guisa che sembravano di partirsi per forza”. Tornato il sereno, si constatò che l’apparato scenografico non aveva subito danni dal diluvio, anzi, sfondi e strutture apparivano “più stabili e vaghi di prima”, sembrò che la pioggia “havesse servito di vernice alle Pitture”. Non fu per giunta visto come “minore miracolo” il fatto che in una città di borbottoni sovente astiosi come Forlì, “tra tanta quantità di popolo di diversi luoghi e paesi” non si fossero avvertite “quistioni, risse”, baruffe e “neanche qualunque altro minimo disturbo”. Infatti, “le genti, tutte legate da una meravigliosa divotione, non seppero che adorare questo miracolo dell’Universo fatto nel Fuoco da Maria”. E accorsero così tanti forestieri che “oltre l’esserne piene l’Osterie, e le Locande, non furno che bastevoli le Case publiche, e private, e i monasterij”. Pertanto fu necessario riempire di giacigli la città, “sotto i portici, e per le strade”. 

Ciò basterebbe per riproporre – e ogni anno, da qui, si tenta ciò che pare non essere preso mai in considerazione – l’idea di una festa della Madonna del Fuoco su più giorni. Come al momento della traslazione, non mancarono appuntamenti profani e suggestivi, come i falò nelle strade, cosa che oggi è sublimata nei lumi alle finestre. “Le tre sere precedenti alla festa – scrive Giuliano Bezzi - furono illustrate da publici, e privati fuochi per tutte le strade della Città”, inoltre “tutti i balconi delle case erano ripieni di lumi” e ornati con “carte dipinte a varij colori”, tanto che “era la notte cangiata in giorno”. In questa cornice, la sera prima del 19 ottobre 1636 “nello scoppiarsi crepò sù la publica piazza un’assai gran bombarda posta à cavallo sù le ruote”. L’esplosione accadde mentre in piazza c’era un sacco di gente: i frammenti, le schegge arrivarono ovunque ma non si registrò nessun ferito. A conclusione di queste giornate di festa, la sera del 21 ottobre 1636, un “nobile fanciullo” di Cesena cantò “un panegirico in honore della Vergine e della Città di Forlì”, e lo fece “con tant’energia e decoro” che “ben parea che quelle parole di latte in quella bocca di latte nascessero da se medesime, non vi fossero piantate da altri: parve un miracolo più tosto della nostra gran Protettrice”. 

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