All'arco delle convertite

Fuoco trionfante e trionfi in legno: l’incanto e lo stupore di una festa clamorosa, mai ripetuta nella storia di Forlì

L'arco trionfale descritto da Giuliano Bezzi

Memorabili festeggiamenti, in quel 20 ottobre del 1636, tra archi in legno, prospettive teatrali, fondali effimeri e un corteo sontuoso festeggiato da un popolo numerosissimo, venuto da città vicine e lontane, per partecipare a tanta bellezza e meraviglia. In tempo di Novena della Madonna del Fuoco occorre ricordare la traslazione dell’Immagine miracolosa avvenuta in quel giorno. Cioè, infatti, venne inaugurata, per la Patrona, la grande cappella in Duomo dove fu collocata in modo permanente. Ciò fu salutato in modo solenne e diede impulso al culto che rende il 4 febbraio giorno festivo. 

Ci penserà Giuliano Bezzi a eternare su carta la meraviglia di quel giorno, gioia del sacro effimero, con descrizioni minuziose e illustrazioni che restituiscono lo stupore barocco del tempo. “Per camminare con ordine in cosa sì bene ordinata – scrive l’Autore - si rappresenteranno prima gli Archi Trionfali, I Teatri, & altri ornamenti immobili conforme alla serie della Processione, poscia si discriveranno gli stendardi, e le Macchine delle Confraternite”. Il nome del volume è “Il fuoco trionfante”, la narrazione si sviluppa come racconto e come pellegrinaggio, il tutto tra ordine, cura dei dettagli, simmetrie, prospettive per un evento degno di essere ricordato per sempre. 

Dei quattro archi innalzati, solo uno era in muratura, quello “di Rialto”, dove gli attuali corso Diaz e corso Garibaldi muovono i primi passi da piazza Saffi. Gli altri, “del Gallo”, sul cantone tra via delle Torri e corso Mazzini, e un altro dove corso Garibaldi incontra piazza del Duomo. Questo apparato scandiva un percorso che aveva inizio dal primo arco, collocato all’inizio di via Maroncelli “presso la chiesa delle monache convertite” (il “Corpus Domini”). Il sontuoso corteo religioso, uscito dal Duomo, s’incamminava dunque verso via Maroncelli passando sotto l’arco, percorrendo la strada fino all’attuale via Morattini da cui si sarebbe diretto verso corso Garibaldi, in direzione Duomo. Ecco dunque il secondo arco e quello di Rialto, il terzo, per giungere sull’attuale piazza Saffi nella quale era stato collocato il basamento della colonna della Madonna del Fuoco che rimarrà in loco per 270 anni. L’itinerario proseguiva per via delle Torri, attraversando il terzo arco, per pervenire al Duomo. 

Tra descrizioni e simbologie ci si può perdere in una sorta di incantamento senza tempo, pertanto occorre in tale breve spazio concentrarsi sul primo arco, a mo’ di esempio. Viene descritto come “trionfale tutto d’ordine composito fatto artificiosamente di legname”. Sono indicate le misure (sia mai che a qualcuno venga in mente di riproporlo per il 2028, seicentesimo anniversario del Miracolo caro ai forlivesi): largo “piedi ventiotto”, alto “piedi cinquantaquattro” mentre “il vano dell’arco per larghezza piedi dodici, di altezza piedi ventiquattro”. Si tenga conto che il  piede forlivese corrisponde a poco meno di 49 centimetri. “Il pennello – spiega Bezzi nell’opera citata - non hebbe che affatticarsi per rilevare co’ colori le parti dell’arco: tutti i capitelli, le lor foglie, corniciamenti, volute, & altre, erano di legname incavato, tutte le parti isolate di sopra caminavano attorno con lo stesso ordine per tutte le due faccie dell’arco corrispondente”. L’arco aveva una caratteristica “vaghezza”: era retto da “quattro colonne d’un piede & un quarto di diamatro accordate con altre quattro di due terzi, appoggiate ad un risalto, che si spiccava dal muro”. Angeli “con fiamme di fuoco accese” color del bronzo stavano in cima ai lati del “frontespitio” nel “cornicione” strutturato su “l’architrave”. In vetta, la statua di Livio Salinatore “vestita dell’imperiale paludamento” quale “primo fondatore della città di Forlì”. Il risultato fu “Gran cosa!”. Infatti “le basi, i cornicioni, i fregi erano dipinti à varie sorti marmi più nobili, com’anche le prefate colonne sopravi giri di fogliami, i piani erano occupati da figure co motti alludenti à chiaroscuro variato, cioè bronzino dall’una faccia, e dall’altra faccia dell’arco di color giallo”. Sebbene il lavoro avesse incontrato più mani e più stili, il risultato fu “in tutto concordevole”. 

Il “sott’arco” era “fatto à graticcio” e “ne’ suoi vani mostrava l’azzurro del Cielo” mentre spiccavano “due nicchie finte di marmo”: nella prima “era dipinta la Religione vestita del suo habito, che appoggiata ad un gran Tabernacolo tutto fabbricato di cuori, e d’ali di fuoco, s’affissava ad un’Imagine della Vergine”. Nel secondo arco il tema principale sarà “la fama sparsa” del miracolo della Madonna del Fuoco e “della pioggia, e del sereno”, il terzo raccontava “la continuata divotione della Città da publica felicità ottenuta, e la speranza d’ottenerne l’eterna”. Il quarto arco, invece, “additava le pene, e i gastighi, che questo purissimo Fuoco di Maria scintillava contra i profani, e I gattivi”. 

La storia raccontata dal primo arco, invece, ossia l’elemento centrale, era “l’apparitione del miracolo del fuoco, e la divotione consagratale dalla Città”. Cioè nel “frontespicio” era rappresentato “l’incendio della Casa, sopravi l’Imagine della Beatissima Vergine aggitata dalle fiamme”. Vi erano pure due riquadri: “sotto l’architrave à man destra” ecco “la città di Forlì secondo il solito sotto il nome di Livia, armata di corazza, e d’elmo” e con “l’Arme del Publico, cioè un’Aquila volante, che gremisce co’ gli unghioni due scudi, uno alla destra dipintavi una croce bianca in campo rosso, un altro alla sinistra scrittavi in campo bianco la parola Libertas, in memoria del tempo che la città si resse à Republica”. Livia “ha un Cornocopia dalla sinistra ripieno di varie sorti biande & aromati conforme al vanto, che vien dato à questo territorio dagli Autori, e dal vero, per esserne veramente molto abbondevole, e con la destra presenta alla Vergine un Cuore dentro un crugiuolo attorniato dalle fiamme”. Dalla bocca “le usciscono queste parole: Tibi Domina Probavi”. L’autore del “Fuoco trionfante” tiene a precisare il significato “del concetto della Livia col crogiuolo in mano”: vuol dire “che la Città dentro le fiamme della sua divotione verso la Vergine fà esperimento del suo cuore, come oro nel fuoco, e mediante l’ardore ne diverrà giornalmente più puro”. In simmetria, dalla parte opposta della Livia, c’era la Pace, “donzella incoronata d’Olivia” che “usciva da un rogo, in cui ardea un fascio d’armi diverse: segnava con un dito l’Imagine della Vergine, e rivolta al Popolo, esprimea in una Cartella queste parole: Hinc apparui in terra vestra”. Anche questa simbologia doveva sembrare semplice allora, in quanto “solo all’apparire dell’incendio di Maria cominciò la prima volta nella Città a cessar l’armi civili, ad apparirne la pace” e sebbene “pullullassero poscia per qualche tempo le discordie, si è poi stabilita in guisa la pace” (è evidente il richiamo alla magistratura dei Novanta Pacifici). 

Nel lato opposto, sull’arco era raffigurato “quel giuco de’ Romani, in cui correvano gli Atleti con una Lampana accesa, l’uno cedendola all’altro, sinché accesa la portavano correndo alla destinata meta”. Il tutto tra donzelle “con l’ali al tergo” che sollecitano i “giuocatori del corso” con “una bucina alla bocca”. La meta verso cui si dirigevano “molte persone correnti” era “in forma quadrata à scaglioni, e terminante in un piccolo spatio in cima” in cui “da un tronco verdeggiante d’olivio pendevano Corone, e Scetri, & un Cartellone scrittovi questo breve: Inextinctam Adferenti”. Ciò significava “che quando i nostri Cittadini portassero viva la fiamma della divotione loro verso la lor Madre del Fuoco sino alla sepoltura, e la tramandassero à Posteri (inteso per quel cedersi della Lampana da Corritori l’un l’altro) senza dubbio otterrebbono in pace la Corona, e lo Scetro del Regno del Cielo”. 

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