Santa Lucia e la stella del Conte

Da speculatore a benefattore: la parabola di Domenico Matteucci dal fervore napoleonico all’ardore religioso e per il bene comune


Per le festività natalizie, la porta d’ingresso di Santa Lucia è illuminata da una cometa. In effetti, il “Dominicus Matteuccius” che vi si legge in alto, soggetto di una frase iscritta, nacque davvero sotto una buona stella, o, meglio, seppe trovarla gestendo bene le sue fortune. Si legge che costui è “comes”, cioè conte, e il suo blasone ornato da grappolo d’uva lo si vede a destra dell’iscrizione. 
Diventa in effetti conte palatino grazie ai buoni uffici del fratello, il medico Antonio morto nel 1816 e operante per lo più a Firenze dove era stato caro al granduca Leopoldo e, in quel di Forlì, ebbe la cattedra di anatomia nel pubblico Ginnasio e membro della Commissione dipartimentale della sanità nella Romagna napoleonica. 
Domenico, vissuto fino al 1835 per settant’anni, rappresenta, nel bene e nel male, lo spirito di certi possidenti forlivesi tra i sobbalzi che la storia offrì tra Sette e Ottocento. Una cricca di faccendieri, la si immagina attenta a presenziare aste per fare affari, trasformando in profitto la cessione dei beni ecclesiastici in seguito alle soppressioni napoleoniche. Per esempio il cittadino Luigi Belli, capitalista ante litteram dal berretto frigio, si aggiudicò in una manciata di anni dal Demanio francese le seguenti chiese forlivesi ed edifici connessi: San Biagio vecchia (la rese un magazzino demolendo presbiterio e coro), Santa Chiara (completamente demolita), Sant’Antonio Nuovo (la trasformò in magazzino abbattendo campanile e cappella maggiore) e San Francesco Grande (completamente rasa al suolo). Personaggio dalla condotta esecrabile, come i suoi danarosi colleghi, anche perché non si curò di riprodurre immagini di ciò che sarebbe sparito per sempre alla vista dei forlivesi dopo secoli di storia e opulenza di tesori artistici. 

Più complessa e sicuramente con più tracce visibili la vicenda di Domenico Matteucci: ciò che gli restava da comprare erano le chiese di Santa Febronia e di Santa Elisabetta, e annessi conventi femminili (il primo verso Porta Schiavonia, il secondo verso Porta Cotogni) le cui forme renderà irriconoscibili, celate tra le abitazioni. Ciò per lui fu un investimento non di poco e i Matteucci saranno una potenza economica per tutto l’Ottocento: per le nozze di Maddalena Matteucci, sua figlia, con il senatore Giovanni Guarini, nascerà il ramo nobiliare dei Guarini-Matteucci. Senza dimenticare che suo nipote omonimo s’imparenterà con gli Hoenzollern Sigmaringen, cioè la famiglia dell’Imperatore Guglielmo II di Germania. 
Ecco dunque che il suo nome si legge sulla facciata della chiesa di Santa Lucia, facciata che sarà rifatta su progetto dell’architetto Giuseppe Pani a spese di Maddalena Matteucci, figlia di Domenico. In questa iscrizione si legge: “Domenico Matteucci, conte in Forlì, avendo cura degli artisti / (in seguito) a tempi di ottimi affari / questa facciata, su disegno di Giuseppe Pani, completò a proprie spese / per Giovanni Battista Folicaldi Delegato della Provincia / fautore delle buone arti / 1829”. Invecchiando, l’affarista aveva dunque intrapreso un cammino di conversione? Voleva redimersi diventando benefattore, ridistribuendo alla collettività il denaro accumulato? 

Sfogliando le pagine delle “Memorie storiche intorno ai forlivesi benemeriti dell’umanità e degli studi nella loro Patria” scritto nel 1842 dal discendente Sesto Matteucci, tra i “ricoveri privati” si cita quello fondato nel 1810 da Domenico Matteucci “quando nel colmo di sua ricchezza volle mostrarsi con tal opera riconoscente alla provvidenza che lo avea dal nulla alzato a tanta fortuna”. Nella sua casa “posta nella via dei maceri” aveva infatti allestito e aperto “un ospizio che disse di San Pellegrino, capace di albergare sette donne vecchie e misere”. Per esse, dunque, si provvedeva al “letto, il pagliariccio, la biancheria”. Il vitto quotidiano consisteva in “minestra”, “mezza libbra carne ed altrettanto pesce nei dì di vigilia”, il tutto “con mezzo boccale di vino” e “pane once 8”. Inoltre, vi era garantita “carbonella” e “legna grossa, e minuta nei rigori d’inverno”. Affinché l’opera continuasse dopo la di lui morte, “ordinò nell’ultimo suo testamento che in perpetuo si mantenesse nel modo in cui egli vivo l’aveva fondata”, cioè “coi redditi di una possessione stimata scudi 4,211.06”. A tal riguardo, si aggiunge che  “la ricca erede del conte Domenico Matteucci fedelmente risponde al pio volere del genitore. Essa ad ogni vacanza ammette nell’ospizio quella vecchia che ha migliori requisiti, cioè buoni costumi ed assoluta miserabilità”. Si precisa in seguito: “Si può valutare che ogni anno tale ospizio costi alla casa Matteucci scudi 200 circa”. Tanta munificenza meritò un prezioso sepolcro, ora al Monumentale: “Allude a quest’atto generoso del Matteucci il marmoreo monumento erettogli in San Domenico dalla figlia: opera dello scultore Lombardini”. 

Si precisa pure che Domenico Matteucci spese “oltre i tre mila scudi” per “il magnifico e grandioso nostro spedale che il passeggiero vede inalzarsi sul corso della città”, cioè il palazzo “eretto nel 1722 su disegno di Giuseppe dei conti Merenda”, quello che poi sarà sede degli Istituti culturali ovvero chiamato “del Merenda”. Non mancò, il Conte Palatino, di firmare la sua buona azione in un’altra iscrizione sull’arco marmoreo che conduce alla Biblioteca “Saffi”, quasi di fronte alla chiesa di Santa Lucia nella sua Forlì. Infatti, si legge nell’opera citata: “la sua maggior facciata” (del palazzo del Merenda) “venne ridotta qual è presentemente col disegno dell’architetto Giuseppe Pani soltanto nell’anno 1827, epoca in cui il conte Domenico Matteucci volle in vita con rara liberalità essere benemerito del pio stabilimento e del pubblico ornato”. Lascerà inoltre all’ospedale per testamento altri 18mila scudi una volta estinte le tre linee maschili della figlia, insomma “quel Matteucci che di sopra vedemmo elargire in vita verso lo spedale, non lo scordò nell’ultimo atto di sua volontà”. 

Domenico Matteucci acquistò sempre nella sua città pure il palazzo oggi Foschi e già Orsi (nell’isolato tra via Giorgina Saffi e corso Garibaldi, davanti a San Filippo). Una camera ovale di questo edificio sarà la prima casa dell’Ebe del Canova. La stessa famiglia aveva pure la cosiddetta Villa Giselda, sulla Cervese, distrutta durante l’ultima guerra: ora ne è rimasto solo il grande platano orientale che fa bella mostra di sé quando si va al mare. 

Commenti