Tra la fine del 1491 e l’inizio del 1492 a Forlì si stava macchinando una cospirazione ai danni di Ottaviano Riario e Caterina Sforza. Ma qualcosa andò storto
La Rocchetta di Schiavonia a ridosso dell'omonima Porta
Caterina Sforza passò almeno due festività natalizie con mille grattacapi. Oltre a quelle del 1499/1500 che la vedevano, ormai perse Imola e Forlì, tenacemente assediata nella Rocca di Ravaldino da Cesare Borgia, anche il periodo natalizio tra il 1491 e il 1492 non si rivelò certo tranquillo per la Tigre. Già qualche mese prima c’erano state alzate di testa in quel di Imola (anche se là, a quanto pare, l’intento era di ridimensionare l’ingombro della Contessa invaghitasi di Giacomo Feo e lasciare spazio a Ottaviano Riario suo figlio e Signore titolare). A Forlì, però, si stavano addensando nubi ben più fosche e con meno compromessi: via Caterina, via Ottaviano, dentro Antonio Ordelaffi. Si stava portando avanti una cospirazione, invero un po’ goffa, che avrebbe fatto un favore a molti. In quei giorni, infatti, venne allo scoperto “un tractato in Forlivio per volere dare la rocca de la porta de Schiavonia ad Antoni Hordelaffo e tòrre lo stato al signore Hoctaviano e a madonna la contessa sua madre”. Leone Cobelli così scrive e lo fa accadere “l’anno 1492” nel mese di “zenaro”. Sigismondo Marchesi, invece, anticipa di circa un mese: “ma scopertosi il tutto il Martedì 6 di Decembre…” del 1491.
La sostanza, però, non cambia. Allora Forlì era retta da Ottaviano Riario, figlio di Girolamo, marito di Caterina Sforza assassinato tre anni prima. Il giovin signore, però, dalla storiografia è passato quale un inetto e come si sa era la Tigre a pensare a tutto. Ella si faceva accompagnare volentieri da Giacomo Feo, altro personaggio mal sopportato dai forlivesi e in effetti pochi anni dopo sarebbe stato ammazzato. Nonostante che avesse dimostrato più volte, Caterina, di avere la mano pesante sugli oppositori, gli intrighi erano all’ordine del giorno. Sogno proibito di molti restava Antonio Ordelaffi, rampollo esiliato della stirpe che aveva legato il suo nome a Forlì per lungo tempo. Sì, certo, in esilio, ma mica poi tanto in là: stava a Ravenna e, come sottolinea Marchesi, erano sempre più frequenti “incontri di varij disturbi per la vicinanza de gli Ordelaffi”. La stirpe cui dal 1480 non era più stato rinnovato il governo della Città sollecitava “con lettere” i suoi simpatizzanti, come Giovanni di Piero Solumbrini. Lo scopo? “Che macchinasse contro Ottaviano, e la Madre”. Il Solumbrini, dunque, “per compiacer gli Ordelaffi” progettò di “prendere di primo tratto per mezzo de’ suoi amici la Rocchetta di Schiavonia”. Aveva fatto amicizia con il servo del castellano “con pensiero d’uccidere il Castellano medesimo e impadronirsi del posto”.
Sarebbe però stato proprio il castellano a denunciare la cospirazione: “preso il Solumbrini insieme con suo fratello Antonello” si constatò che altro complice era “Giovanni Montanaro” mentre “altri consapevoli del fatto”, specialmente “parenti del Solumbrini” ben pensarono di “prendere la fuga con scalare le mura di notte”. I congiurati furono condotti in prigione il 9 dicembre e “menati alla ringhiera del Podestà”, cioè esposti in una grata che sporgeva dove ora si vede il balconcino a cono sul palazzo del Podestà in piazza Saffi. Qui ascoltarono la sentenza e Solumbrini “fu giustitiato alla Porta di Schiavonia”, Giovanni Montanaro “menato con la corda al collo al luogo del supplicio” ma fu poi “ricondotto prigione in Rocca” e dopo alcuni mesi liberato “in gratia delle figliuole di Marino Orcioli”. Antonello, invece, “trovato ch’era innocente, fu subbito licentiato”.
Il racconto secentesco di Marchesi attinge da Leone Cobelli il quale però aveva annotato pure altri dettagli curiosi. L’antico cronista riporta per esempio che Giovanni Solumbrini era un “calciolaro” di Villanova, che coinvolse non solo il famiglio del castellano della Rocchetta di Schiavonia, tale “Iacomo da Mantoa”, ma anche “uno de Oriolo”. Leone Cobelli, contemporaneo ai fatti, scrive poi come la macchinazione era partita nell’estate, nel mese di agosto, quando “uno chiamato Fiorino fratello de don Cristofano parente de Andrea de la Masone abitatore in Forlivio” mise in moto la vicenda, incontrando il Solumbrini finché poi “andoro anbi de conpagnia e trovoro Zohanni de’ Montanari”, così “rasonando inseme” misero a punto il “tractato”, e con loro “era uno d’Oriolo lor conpagno”. Si sa che Solumbrini convinse Giacomo il servo del castellano “promectendogli dinari e altri benefici” fino a giurargli che sarebbe diventato “gran maestro di misser Antoni Hordelaffo”. Giacomo, però, aveva la lingua lunga e si lasciò scappare troppe parole con l’intento di coinvolgere nella partita un altro famiglio. Egli “s’andò con Dio” mentre l’altro famiglio “lo revelò al castellano”. Solumbrini fu presto “preso” e “menato in rocca”: “ebbe la corda” e “confessò el tucto”. Fiorino “tal sentendo fugì” e lo stesso fece “quel d’Oriolo”. Solumbrini fu impiccato, mentre “Zohanni del Gratusa de’ Montanari” ebbe la grazia, tuttavia “stette a la ringhiera con lo cavestro al collo come Zohanni Solumbrini e con li mani direto al culo finché si lesse la loro condanasione”. Insomma, se Solumbrini “andò a li forche”, il compare “andò a la citatella con lo cavestro al collo per el burgo, che tucto Forlì lo vide, e cossì tornò da la citatella a palacio del potestà con tancta virgogna”.
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