Dicembre 1432, prima di feste e luci, Tommaso di ser Filippo è condotto al patibolo. Uno spettacolo terribile raccontato da Giovanni di Mastro Pedrino
Piazza Saffi di Forlì ossia il "Campo dell'Abate", luogo dell'esecuzioneÈ l’11 dicembre 1432 quando accadde qualcosa di orribile a Forlì. Cittadini e forestieri giunti nella grande piazza per vendere o comprare al mercato più ricco della Romagna si trovarono nel bel mezzo di un’esecuzione pubblica. Non che fosse una novità, almeno a quel tempo: vero è che la grande piazza di Forlì, fino a ottant’anni fa, è stata sede di fatti di sangue. In quel dicembre del passato, nei giorni in cui ora si allestisce uno scenario brillante e festoso, tra effetti di luce, giostra e bancarelle, come da un po’ il Natale pare averci abituato, ciò che videro gli antenati fu tutt’altro. È Giovanni di Mastro Pedrino che racconta questa vicenda in una Forlì orfana di un Signore Ordelaffi da almeno dieci anni (Giorgio era morto nel 1423) e retta da cardinali mandati da Roma come Domenico Capranica prima e Tommaso Paruta poi. La minaccia, per il potere costituito, recava pur sempre il volto di Antonio, non più giovanissimo rampollo della stirpe delle Branche Verdi. L’Ordelaffi, in effetti, qualche mese più avanti avrebbe ripreso il controllo di Forlì diventandone Signore.
Tornando all’11 dicembre 1432, il cronista riferisce che era “in dì goiba”, cioè giovedì quando al “Becho”, in prigione, nonostante le buone ambasciate di “multi amixe” e l’auspicato intervento del “marchexe da Ferara” venne disposto di “farlo morire”. Gli altri suoi “conpagni”, del resto, erano stati “apicadi”, cioè mandati alla forca. La mattina, dunque, “fo messo fuora le bandiere a lo palaçço del podestade”, palazzo nel quale il condannato era stato condotto nella notte. In piazza, “presso a la croxe” e “verso ‘l palaçço del signore”, cioè dove un tempo c’era la Crocetta, era stato collocato il luogo del supplizio con tanto di lame affilate, ciocco e segatura, rivolto verso l’attuale palazzo municipale. Questo “Becho” – poi sarà più chiaro – si chiamava Tommaso, figlio di ser Filippo.
La Crocetta, come chi mastica un po’ di storia forlivese già sa, era un tempietto sorto per ricordare la battaglia del “Sanguinoso mucchio” di quel glorioso 1282. Una piccola chiesa, con altare, cupola e un leone sormontato dalla croce, leone che ruggiva minaccioso verso la Francia. Situata in posizione centrale (ma non proprio al centro) del Campo dell’Abate, la grande piazza, sarà purtroppo demolita da un altro cardinale nel Seicento, quindi sostituita dalla colonna della Madonna del Fuoco al cui posto, da circa un secolo a questa parte, campeggia l’Aurelio pensoso.
Insomma, ciò che si poteva vedere era una piazza con un allestimento che “stette aperechiado in modo de terrore”. Forse il boia più avvezzo non c’era, venne convocato un collega non troppo esperto e assai emotivo, di mano non salda. Nel frattempo, Tommaso stava “dentro da le fenestre” e ascoltò “la sua condanaxone” letta a gran voce in pubblico ed evidenziata dal suono dell’arengo “e poche botte”. Il capo d’imputazione, nella lingua forlivese del tempo suonava così: “Como Tomaxo de ser Filippo ditto Becho una volta fo rechesto sota ‘l portegho de la Caxa grande de Paoloçço de Paxino, nevode de Bexe, che loro volea fare Antonio digl’Ordelaffe signor de Forlì, e che gle darabe la porte de Sciavania, e che lui trovasse qualche amigho con lui a fare con loro el fatto”. Insomma, si capisce che Tommaso era un congiurato, un cospiratore, uno che tramava per il ritorno di Antonio Ordelaffi che sperava di veder Signore. Un’altra volta, infatti, il “Becho” fu sorpreso a mormorare: “Io so’ sempre aparechiado”, cioè sempre pronto alla sedizione con “alcuno amigho”.
E perciò, secondo “la raxone e ‘l statuto” fu condannato “a la morte” e “de graçia gle fo conçesso da taglargle la testa”. Egli, rassegnato, “con grande paçiençia mostrò morire”: così fu condotto “in piaça apresso la croxe”, e all’altare della Crocetta ricevette “el Corpo de Cristo”, cioè fu comunicato. Il boia, come scrive il cronista, si rivelò un “manegoldo” giacché “gle diè ben quatordixe botte nançe che el morisse”. Uno strazio. Raccolta la salma, fu collocata “in una cassa” che venne portata in Sant’Agostino “aconpagnado da multi relegioxi e molto puovolo”, con “parenti, moglere, figluoli” i quali “tutti piangevano con grandissimo lamento”. La scena fu raccapricciante e lasciò nello sconcerto i forlivesi, non solo per la pena di vedere inferti quattordici colpi per ammazzare legalmente un condannato ma pure perché “la ditta executione” fu eseguita “in lo luogo de la pubblica piaça”. Come se non bastasse, permase fino al giorno successivo il patibolo, con il ciocco di legno su cui era stata staccata la testa di Tommaso “tutto intriso de sangue”, sangue che grondò a rivoli dal cuore della piazza. La scena sembrava fatta apposta per “mettere terrore” anche a chi da lì passava “se pur non volea vedere”.
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