I primi colori di Melozzo

Novembre 1494: moriva l’artista di Forlì. Cosa si sa dei suoi primi anni nella sua città? Da dove trasse ispirazione?


Il 2 dicembre 1461, un giovane forlivese viene definito per la prima volta “pittore” in un documento ufficiale. Era nato l’8 giugno 1438, si chiamava Melozzo degli Ambrogi, residente “in contrata tumbarum S. Blasii intus”, cioè, con una certa approssimazione, tra le attuali via Maroncelli e via Silvio Pellico. Così è secondo Adamo Pasini che, nello scrivere “Melozzo nei documenti di archivio” (1938) dettaglia e scandaglia la compravendita di quattro tornature di terra e altri atti che hanno impresso il nome dell’artista forlivese. Forlivese che a Forlì si è formato come “pittore”, appunto, e sui misteriosi primi anni del “pictor papalis” all’ombra di San Mercuriale. Pasini, infatti, rovistando tra stati d’anime e documenti parrocchiali, scova che Melozzo era un nome frequente per la famiglia degli Ambrogi, tanto che il “nostro” sarebbe il terzo: così si chiamava suo nonno e ancor prima il trisnonno. Ciò che si evince dal materiale citato dal monsignore, è che tutto “sembra escludere che Melozzo sia stato fuori di Forlì prima del 1460, e che fuori di Forlì abbia imparato la sua arte”. 

Visto che poco o nulla si sa dei suoi “giovani anni”, secondo ciò che Massimo Pantucci con Pietro Reggiani scrisse in “Melozzo da Forlì” (1943) si può asserire che “sostò certamente, a lungo, in contemplazione e in meditazione, nelle grandi abbazie, nelle raccolte chiese, nelle splendenti basiliche, negli oratori, nei chiostri”. L’architettura al laterizio rosso forlivese avrebbe dunque suggestionato Melozzo tanto che avrebbe visto nel “gioiello romanico di Sant’Antonio” (vecchio) “la sua casa”, e ancora “tutte le chiese di allora maturarono in lui il luminoso sogno di gloria e di bellezza”. A Forlì, infatti “tutto era per lui gaudio di vita, alito d’amore, luce di grandezza: dalla mole della Cattedrale, al tempio di San Girolamo ora San Biagio, dalla romita antichissima chiesa di Pieve Acquedotto alle chiese di Schiavonia” e l’elenco prosegue in modo fin troppo minuzioso di chiese scomparse o ancora esistenti. Per la prima categoria è da segnalare, appunto San Biagio, ricostruita dopo le bombe del 1944 e dove sarebbe opportuno riprodurre la Cappella Feo, di mano in parte melozzesca, ormai priva dei colori, in malinconici toni di grigio fotografico. Riproduzione che potrebbe avvenire anche in modo virtuale, giusto per colmare l’algore del bianco sorto in luogo di secoli di bellezza ingiustamente perduta.

Contemporaneamente al quaderno di Adamo Pasini, ne venne pubblicato uno di Antonio Mambelli: “Melozzo degli Ambrogi nel V centenario della nascita”, testo che dà particolare attenzione alla “sensibilità religiosa del Pittore degli Angeli” e fu diffuso in quel 1938, anno – appunto – cinque volte centenario della sua nascita. Tale discorso venne letto “nella Sala Maggiore del Convento dei Cappuccini di Forlì, alla presenza del Podestà Fante Luigi Panciatichi” e di altre autorità civili e religiose. Mambelli descrive un’interessante storia di Melozzo innestata alla storia forlivese: “Nato in Forlì nel 1438, quando Antonio I Ordelaffi vi ristabiliva dopo tante vicende il potere della sua Casa; cresciuto fanciullo nel periodo della reggenza di Caterina Rangoni, quindi di Cecco III, in attesa che Pino, il fratello suo volitivo e crudele, mecenate e guerriero, traesse da quelle ombre, da quelle luci delitti e splendore a caratterizzare il suo tempo e la sua Corte, provò tuttavia la saggezza del loro governare all’interno e il favore concesso alle arti”. Inoltre, “prima di partecipare all’intima tragedia di Casa Ordelaffi”, il popolo forlivese “stava bene, ricco et grasso, festante sempre in periodi in pace”. E sarebbe stata la prosperità della città natìa a fissarsi negli occhi del Melozzo fino a esserne fonte d’ispirazione, e qui Mambelli tiene per mano chi ascolta (o chi legge), evocando, nella lingua di Leone Cobelli, quei “molti giovani homini et anco donne” che andavano “cantando, chi con pive, chi citare, chi con cimbali et altri strumenti”: “Non erano mancati alla città, fino dai giorni lontani, gli elementi propizi al suo risveglio artistico. Volgete lo sguardo alle sue contrade e sotto l’agile San Mercuriale troverete chiese e palazzi che il tempo ha distrutti o alterati, ma che allora serbavano le originali meraviglie e freschi stupendi. Poi giostre, torneamenti, parate e, nel 1448, le rappresentazioni sacre nella pubblica piazza con masse animate, in funzioni decorative come grandi quadri viventi, che certo colpirono la fantasia del giovinetto”. Se “la madre Iacoba” gli pagò “il mezzo per mettersi in viaggio a soddisfare i propri ideali alla ricerca del Maestro dal quale apprendere la tecnica superiore, necessaria a riprodurre la visione dell’anima sua pura e innamorata”, Melozzo “da Dio aveva avuta la fede, dalla sua gente la forza, erede della sua volontà e del suo genio, fede e forza che avrà poi la virtù di fondere l’una con l’altra, perché in questo sta la sua gloria”. Sempre Mambelli, tentando di far luce su questi anni, immagina che “il fratello suo, Francesco” abbia potuto averlo con sè “al banco di orafo”, oppure “il congiunto Matteo di Riceputo, architetto di valore come proverà costruendo nel 1459 il Palazzo del Podestà”. Si vagheggia di “pittori rimasti oscuri" che "l’avranno accolto nei fondaci o sulle impalcature a macinare e a diluire colori” e nel frattempo “l’arte di Melozzo era già in boccio, come un fiore che schiuderà le sgargianti corolle al sole di Roma”. 

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