Clefi, Grimoaldo, Lupo e… una sedia: sulle scarse tracce degli uomini dalla lunga barba
Caduto l'Impero Romano d'Occidente, dopo il breve dominio di Odoacre, Forlì fece parte del regno degli Ostrogoti, quelli che gli antichi cronisti locali chiamavano “Stragotti”. Passò quindi al dominio di Bisanzio costituendo una pentapoli con Ravenna, Forlimpopoli, Classe e Cesarea. In questo tempo confuso e lontano nasceva la distinzione tra la Langobardia (tra cui l’Emilia), ormai occupata dai longobardi, e la Romània, più o meno l’attuale Romagna, dove era persistente l’attaccamento a ciò che restava dell’Impero.
Tuttavia i longobardi giunsero anche da queste parti. Per esempio il re Clefi che, prima di cingere d’assedio Ravenna, diede grossi problemi a Forlì difesa da San Valeriano o chi per lui. Cent’anni dopo, però, si trova un fatto che coinvolge un altro Re dei longobardi, Grimoaldo e un suo usurpatore: il duca Lupo del Friuli. Personaggi storicamente esistiti, questi, che i primi cronisti forlivesi innestano nella storia locale con episodi verosimili e su cui è bello fantasticare. Si sa che Flavio Grimoaldo fu Re dei Longobardi e Re d’Italia dal 662 al 671 e, contestualmente, Duca di Benevento.
Diamo per buono ciò che scrisse Leone Cobelli verso la fine del Quattrocento. Nell’anno 670, Grimoaldo “fece un grande esercito”: suo figlio, in quel di Benevento, aveva chiesto il suo aiuto poiché “si vedeva a mal partito”. Così “si messe per via” e “come fu a Bologna, si confederò con bolognesi”. Quindi “pervenne a Forlì” e “per compiacere a bolognesi si fermò con lo esercito et pose campo a Forlì” in modo che i “forlivesi non potevano resistere alla potenza di Grimoaldo”. E ciò deve considerarsi per “Forlimpopoli et tutti li territori forlivesi”. Ora, dal momento che Grimoaldo doveva proseguire il viaggio verso Benevento, là dove sarebbe dovuto venire in soccorso del figlio, lasciò alcuni ufficiali dei suoi, prevalentemente bolognesi, a occupare Forlì. Tra essi “Lupus”, che “lo fè governatore di tutta la Romagna, di Forlì, Imola, Faenza et molti altri castelli”. E qui s’innesta l’ironia del cronista quattrocentesco: “Hor pensa tu littore come il populo forlivese stava contento: facevano el peggio che potevano”. Addirittura i “signori cavalieri forlivesi” se ne andarono da Forlì “per non veder tante iniustizie”.
Nel frattempo, Lupo “vedendo che Grimoaldo era molto occupato in quella guerra di Benevento”, si recò a Bologna “per volersi far re dei longobardi” tramando coi bolognesi ai quali “donò Forlì, Imola, Faenza” prima di “campeggiare, pigliando città, castelli, ruinando, assediando tutta Romagna et parte di Lombardia”. La reazione di Grimoaldo fu veloce e riuscì a radunare un buon esercito allo scopo di debellare l’usurpatore. Una volta rientrato in Romagna, si rese conto che la città più fedele a Lupo era Forlimpopoli, anzi, i “frempolesi si fero beffe di Grimoaldo, gridando: Viva Lupus”. Oltremodo risentito, il sovrano scatenò una battaglia feroce dove “morì un suo conduttiere lo quale fortemente amava”. Forlimpopoli venne distrutta, incendiata e fu sparso il sale sul terreno arato dai buoi “che mai più si rifacesse”. In seguito, Grimoaldo “venne a Forlivio” ma “li forlovesi non ferno resistenza alcuna, subito s’arresero”. Cobelli, senza dare riferimenti chiari, aggiunge che qualcuno dice che “brucciò Forlivio”, mentre “altri dicono che non fu vero”.
Ultimo baluardo di Lupus era Ladino, cioè “un loco molto ameno et antico” con “una fonte molto laudata, essendo acqua perfetta”. Ladino “non voleva accordo”: pertanto Grimoaldo “l’ebbe per forza” e “spianò, rovinò, saccomanò” quello che fino ad allora era il Castel Latino, nella campagna oltre Vecchiazzano. Sorte analoga tornò a Faenza e Imola benché “si facevano beffe di lui”. Grimoaldo, dunque, chiamò in aiuto i forlivesi che “furono obbedienti, et immediate calvacoro a Imola” con molte vettovaglie. Lupo “come vole fortuna”, fuggendo “fu morto a piè della porta di Forlì”. A conseguenza di ciò, Grimoaldo disse ai forlivesi: “Voi siete boni, reali et fideli a me: io vi faccio liberi, et siate da hora inanci a vera libertà”. Il sovrano, però, pose delle condizioni: “mai per niun tempo lasciate rifar Forlimpolo né Ladino”. Dopo aver ottenuto la fedeltà dei forlivesi, andò a Imola, la saccheggiò, la “ruinò et arse, et appiccò lì molti bolognesi” nel giorno di sabato santo, “quando si fa la cresima”. Si diresse quindi a Bologna “con intentione di disfarla” ma se ne tornò a Pavia, forse satollo di devastazioni, dopo aver dato “comiato a forlovesi”.
Sigismondo Marchesi, duecento anni dopo Cobelli, aggiunse che Grimoaldo, una volta accortosi dell’usurpazione di Lupo, mandò a Forlì “Cacano Duce de’ Bavari”. In realtà non si tratta di bavaresi ma di Avari, popolo che con “cacano” identificava il loro sovrano. Costui, “mossosi con grosso esercito”, incendiò la parte di Forlì “dalla parte del fiume Ariete” (Montone), là dove Lupo aveva un “sontuoso Palazzo” che “come in capo del Regno” teneva “la sua Residenza” (forse si riferisce a Ladino?). Inoltre “appresso Forlì” trovò la morte “Arnesco figliuolo di Lupo”.
Cosa c’è di vero in questa storia? Le lacune lasciano spazio al mito e non si può far altro che dar credito a Cobelli e alle sue fonti misteriose. Già che si è qui, ci si può concedere qualche suggestione: non è che Ravaldino derivi da un termine longobardo? Si dà quasi per scontato che il toponimo discenda da un’assonanza con “rivellino”, nome che identifica un elemento di fortificazione staccato dalla cinta muraria. Se invece derivasse da “warda”, che nella lingua dei longobardi indicava un “luogo elevato atto a osservazioni militari”? O ancora a “wald”, cioè “selva”? Della presenza dei longobardi a Forlì, cos’è rimasto? Qualche toponimo qua e là, quelli che erano chiamati gli “orti longobardi”, ormai spariti, diaframma verde a ridosso delle mura. Di certo, poco più di una seggiola. Per dire “sedile”, infatti, gli uomini dalla lunga barba usavano il termine “skrana”.
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