Difficile scovare tracce della Forlì del Duecento: proviamo quindi a rivolgerci a un notaio
Si leggono anche i nomi degli antenati: Florelucio de Fabrica, Vedirosa Bartolini de contrada S. Petri, Domenico Troncholli de Lugareto, Imilgle Recatadi de contrata Vineae Abbatis, così, giusto per creare un po’ di atmosfera. Leggendo poi di un tale Guglielmo Saragoni si capisce che il sangue di questi avi oscuri s’innesta nel presente, perché in fondo siamo sempre noi. Ora, perché andavano dal notaio i forlivesi del medioevo? Per i grandi fatti della vita: dote, promesse di pagamento, acquisti di terreni e immobili, testamenti e pure affitti di bestiame.
Il 5 aprile 1287, a Forlì "sub porticu domus Nomai notarii de contrata" Benentedi "Martini Gati de Fabrica" confessa di ricevere da Biondo "Patri Iffe", "nomine dotis" per il matrimonio che ha contratto con Berta sorella di questi 21 lire "in denarii factis et in boni mobilibus", gli concede a sua volta un appezzamento di terra posta "in mandriolis, territorio Forlivii et plebatu Aquaductus" col patto che se egli dovesse morire prima di lei senza figli, lei ed il fratello possano godere della terra finché i suoi eredi non abbiano restituito le 21 lire e aggiunto 40 soldi "de suo, pacto lucrafationis". Se egli poi dovesse morire dopo lei senza figli, il fratello può ritenere detta terra finché non gli sono date 19 lire. Questi non ha diritto ai 40 soldi ed ai frutti.
Altro caso di dote si ha il 13 gennaio 1288 quando "in domo Aliocti iudicis, de contrada fossati veteris", Giovanni Bonfanti confessa di ricevere da Palmerio "panaterio", "nomine di dotis" per il matrimonio che deve contrarre con Ravegnana, due tornature vignate poste "in Cavalmorto, territorio Forlivii" dal valore di 28 lire. Il medesimo Giovanni obbliga il predetto Palmerio a ricevere un appezzamento di terra posto "in Bandifora, territorio Forlivii et plebatu Barisani". Se però egli premuore alla moglie, lei può godere di questo appezzamento finché i suoi eredi non le abbiano restituito le 28 lire dotali. Se è lei invece che premuore, senza figli, gli eredi suoi lo godranno, finché egli non avrà restituito a loro 25 lire.
Alla data del 5 agosto 1287 è registrato un testamento: Fiordalisia figlia "fratris Amigiti" e sposa a Giovanni "Rigonis de contrata S. Blasii" temendo la morte "propter partum" detta le sue ultime volontà. Lascia 10 lire ravennati "pro anima sua" e al rettore di San Biagio: Giacomo. Destina alla madre Osanna 50 lire ravennati. Eredi: suo figlio Andrea e il nascituro se vedrà la luce.
Il 15 agosto 1287 si sancisce un affitto di pecore: Frate Montanaro "de ospitali de Planta Luxure" (cioè della Pianta), chiese di affittare "a Bencivenni Ubertelli de Bertenorio" ora abitante "in tumba rozorum posita in villa Plebis quinti", 40 pecore per quattro anni.
Questi confessa di averle presso di sé, promette di pascerle e custodirle a sue spese. Se qualcuna dovesse morire "mala custodia" tutto il danno è del ricevente. Se invece "morte naturali" il danno è comune, purché sia mostrata entro gli otto giorni la pelle. Si obbliga di portare ogni anno "partem contingentem casei et lane", di allevare agnelli ed agnelle, di ricondurre a Forlì il gregge terminato il tempo e di dividerlo a metà.
Presso la chiesa di Santa Maria in Piazza (cioè in via delle Torri), il 17 novembre 1287 Vedirosa, sposa a Guglielmo "domini Guidonis Saragoni", figlia del fu "Bartolini Tuschi de contrata S. Petri", in presenza di Bonaventura "iudicis communis", fratello di detto Bartolino, protesta che "non intendit" accettare l’eredità lasciata da suo padre. Però non rinuncia al diritto di ricevere lire 500 ravennati, che il predetto Bartolino ha lasciato a Margherita sua figlia e ad Agnese sua nipote, se queste dovessero morire in età pupillare.
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