Non c'è pace tra i vigneti

Settembre 1514: cinquanta armati ghibellini contro sedici giovani guelfi. Tra vendemmia e vendetta, la Forlì sanguigna e sanguinosa del XVI Secolo

Particolare di Palazzo Morattini di via Maroncelli e lo stemma della famiglia guelfa

Anno 1514: è il 15 settembre quando esplode una lite tra Lodovico Mangagnoni contro “ser Andriole et suoi heredi de Rossi” a causa di una vigna situata in quel di Carpena. Tutto farebbe supporre una soluzione civile e civilistica ma nel clima irritabile della Forlì sanguigna e sanguinosa del Cinquecento sarà la scintilla per un incendio. Una storia di vendemmia e di vendetta, insomma. Ne parla Sebastiano Menzocchi nella sua Cronaca scritta nel 1663 in modo talora confuso, tanto che una decina d’anni dopo Sigismondo Marchesi cercherà di chiarire dei punti oscuri specialmente per i posteri. Per esempio, “Lodovico Mangagnoni” si rivelerà essere “Lodovico Manganoni Orcioli” sicché sia più nitida la sua collocazione in una famiglia di fazione ghibellina, tanto che, scrive Marchesi, “non potendo soffrire di vedersi preferito l’avversario, sollevò i ghibellini”: i Rossi erano infatti guelfi. Resta da capire se il vigneto fosse davvero dell’Orcioli e se sì perché a Rossi fu consentito di raccoglierne i frutti. 
Secondo Menzocchi, Lodovico de Rossi, figlio di ser Andriolo, aveva avuto il permesso dal Governatore di Forlì di andare “liberamente a vindemiare la vigna”. Tuttavia, “perché non si fidava menò seco sedici giovani della parte Morattina” e così insieme andarono alla vigna. Gli esponenti della parte ghibellina lo vennero a sapere e dissero: “hora sì che è el tempo di fare uno bello colpo et fatto nostro”, così anch’essi li raggiunsero non certo per fare scherzi da buontemponi: erano armati. Se si scorre la cronaca dell’anno 1514 e precedenti si trovano i pregressi di questa situazione tra le mura di Forlì, pertanto ripercorrere la strada al contrario, tra ammazzamenti, tentati omicidi e vendette, è come cercare una probatio diabolica. È da ricordare che da dieci anni la Città era parte integrante dello Stato Pontificio, essendo caduto ogni refolo di Signoria o autonomia di pertinaci ghibellini, e i guelfi, fino ad allora dimessi e sostanzialmente remissivi, avevano sicuramente un legame più stretto con Roma capitale.

Le orecchie dei forlivesi sono sempre molto attente, almeno in quel periodo di liti e di faide, e la voce giunse a Bartolomeo Serughi e Girolamo Morattini. Il primo si era distinto per la virtù militare, l’altro era riconosciuto come capo dei guelfi forlivesi. Costoro andarono a lagnarsi dal Governatore, precisando a ragione che a breve ne sarebbe sorto un guaio. Il Governatore, conoscendo la situazione di guerra perpetua tra guelfi e ghibellini che scandì almeno la prima metà del Cinquecento forlivese, inviò alla vigna di Carpena un Theodoli (ghibellino) e Girolamo Morattini (guelfo), con l’obiettivo di riportare a casa i “sedici giovani della parte Morattina”. Marchesi aggiunge poi che il Governatore “sententiò con satisfattione d’ambe le parti, che ciascuno havesse una portione dell’uva”. 
Il proposito dei ghibellini era comunque chiaro: “ordenorno d’andare a trovare nella città li gioveni della vigna et amazzarli tutti”, quindi “seguitare il macello” prendendo possesso della piazza. L’accorto Girolamo Morattini scoprì questo progetto “e con tutta la parte sua si levò in arma facendo dare la campana della Trinità sonando alle armi”. Così alcuni squadroni guelfi si precipitarono per raggiungere e scortare i giovani, altri si recarono in piazza “con gran’ardire”.
Lì c’erano Tiberto Brandolini e Antonio Numai, capi ghibellini forlivesi dalla fama prestigiosa: l’uno era barone del Sacro Romano Impero per i suoi uffici presso la Casa d’Asburgo e l’altro era segretario di Stato dei Gonzaga di Mantova e sarebbe stato ucciso una decina d’anni dopo: il suo sepolcro era presso la porta maggiore di San Francesco Grande. Questi, “prevedendo il peggio per havere poca gente, lasciarono la piazza”, cioè “fuggirono”. Girolamo Morattini “prese la piazza et si gridò: Chiesa, Chiesa, Morattini, Morattini”. 

I giovani che erano nella vigna, nel frattempo, se l’erano svignata: “allegri, se ne vennero a casa cantando”, prendendo strade diverse, senza immaginarsi l’agguato incombente. Erano allegri o perché un po’ brilli o perché avevano capito che non avrebbero subito questioni: la pace dell’uva li rendeva immuni. Lo squadrone che avrebbe dovuto scortarli, in un primo momento non li trovò. Furono invece sorpresi dai ghibellini: tre fratelli Palmezzani, Pierpaolo Chiaruzzi, Battista dal Cornacchio, Giacomo Marescalco con Andrea suo figlio, Manfredo Maldenti, Murino, Nicolò Baldraccani, il figlio di Francesco Pontiroli, Giovanni Battista del Tempio e “con molti altri insomma faceano il n° di 50” che “tanti furno contati a Bussecchio”. Questi cinquanta si scontrarono “per sorte” con “li gioveni che venivan dalla vigna, quali s’erano passati in quelle case per fare collatione”. Tra questi giovani sono citati Bernardino Morattini e Metro Menganti che, come precisa Marchesi, “s’erano fatti fuori su la strada curiosi di sapere che frotta di gente si fosse quella che si sentiva”. Menzocchi qui scrive invece che Bernardino Morattini “cognoscendo tutti questi tali” disse a uno dei Palmezzani: “non andate più nanzi perché è acordato il fatto et la lite”, cioè tutto sarà risolto in modo che “ciascuno habbiano un carro d’uva”. Il poveretto, però, sentì gridare: “Carne, carne, amazza, amazza” e venne ucciso dal ghibellino, poi toccò a “Mattia di Bernardo Manzante”, altro giovane che perse la vita così. 

Gli altri ragazzi si rifugiarono nelle case per poi dirigersi verso Forlì le cui Porte, però, erano serrate. Girolamo Morattini, dunque, per evitare una tonnara al contrario, “fece fare una porta alla torre de quadri” (la Porta Liviense o Valeriana non esisteva già più da tempo) così “li fece entrare”. 
Niente pace tra le viti: il Morattini scatenò la vendetta guelfa, mise “al sacho et al fuoco” le case dei nemici, “brugiò la casa del Theodolo, quella del Mangagnoni con quella del Marescalcho”, in seguito “amazzò Marco Tomasoli” e “abrugiò anco la casa del Compadrino de Tomasoli” e “altre assai ne messe a sacho” per poi porre “bone guardie a torno alla casa de Girolamo Numai da Ravaldino”. Qui catturò questo Girolamo con “molti di quella parte” e furono “condotti in rocha con sigurtà”. Il Theodoli che era andato alla vigna con Bartolomeo Serughi “se ne fuggì a Meldula” ma il Governatore “li messe le mani adosso, et lo fece mettere priggioni tutti nella roccha di Meldula”. Menzocchi conclude questa faccenda deprecando i “mali termini” in cui “le cose di Forlì” si trovavano. 

Tra l’altro, il 13 settembre era crollato l’arco del ponte di Schiavonia, struttura che “patì sempre gran contrasto et burasche da tempi et d’altri”. Il ponte, frettolosamente riparato, il 30 settembre “cadde di nuovo”: “la colpa et causa fo detta et data alla calcina cattiva che non havea fatto bona presa per il troppo sabione, sendo stata magra”. Come se non bastasse, in quello stesso 30 settembre del 1514 “trasse sì gran vento che gettò per terra delle case et amazzò delle persone a Forlì, cadde la casa del Spaiaffano et amazzò tre donne”.


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