Giovanni Giardini e Sant’Alò

Una famiglia di argentieri e una corporazione con sede in San Biagio, chiesa distrutta dalle bombe di ottant’anni fa

L'interno della chiesa di San Biagio di Forlì e Giovanni Giardini con una delle sue opere

Il suo marchio è inconfondibile: un canestrino di fiori. Il forlivese d’indubbio e notevole prestigio in vita che ne fece il suo punzone porta il nome di Giovanni Giardini. 

Nato a Forlì il 24 giugno 1646, venne battezzato nella Cattedrale di Santa Croce. Già a diciannove anni era a Roma, apprendista nell’arte dell’argenteria nella bottega di Marco Gambarucci. Anche suo padre Giacomo svolgeva la stessa professione ma la Capitale offre ben altre opportunità. A tutti gli effetti, siamo davanti a una famiglia geniale: oltre a Giovanni, anche i di lui fratelli Sebastiano e Alessandro, svezzati nell’arte in casa, si trasferirono a Roma. 

Giovanni, in particolare (il più celebre), nel 1675 ottenne la patente di maestro argentiere grazie a “un piede d’argento fatto a balestra”. Nel 1698 è nominato fonditore della Camera Apostolica e, come tale, si applica pure per la fattura di cento mortai per Castel Sant’Angelo. Nel 1700 sarà commissionato a lui e al fratello Alessandro la realizzazione del medaglione in bronzo della tomba della regina Cristina di Svezia in San Pietro in Vaticano. Una sua opera importante si trova pure a Malta, un “Battesimo di Gesù” nella chiesa di San Giovanni a La Valletta. 

E a Forlì? Il 27 ottobre 1708 viene collocata davanti all’Immagine della Beata Vergine del Fuoco in Duomo, una “tribuna di bronzo” fabbricata da Giovanni Giardini a Roma a spese del cardinale Fabrizio Paulucci (costo: tremilacinquecento scudi). Inoltre, nell’inventario dei suoi beni (in mezzo ai numerosi oggetti della sua bottega) si legge di “diversi pezzi d’argento per fare un Reliquiario di san Mercuriale di Forlì, libre nove e denari diciotto”, oggetto che chi scrive non ha elementi per capire se sia stato realizzato o meno. Si sa che fu uno dei suoi ultimi lavori (punzonatura al 1720) e di certo non si tratta del reliquiario del cranio del Protovescovo custodito nella chiesa della Trinità, firmato “Bernardinus Marianus” e datato 1575. Va tuttavia detto che il famoso forlivese, morto l’ultimo giorno del 1721, nella camera da letto della sua casa romana esponeva con orgoglio “una Madonna del Foco in carta cornice nera filettata d’oro”. 

A prova della sua fama vi è la pubblicazione “Disegni diversi inventati e delineati da Giovanni Giardini da Forlì”, con incisioni di Massimiliano Giuseppe Limpach di Praga raffiguranti un repertorio di oggetti disegnati dall’artista romagnolo. L’opera, edita a Roma nel 1714, può considerarsi un caso eccezionale nella storia dell’arte orafa in Italia. Contemplando tali disegni, Carlo Grigioni in “Giovanni Giardini da Forlì – Argentiere e Fonditore in Roma” (1963), li descrive con incanto fanciullesco: “Sette calici, di forme diversissime tra loro, nella grandezza naturale di circa una spanna. Singolare il terzo, che figura un fusto di vite, cui si avvolgono, con i pampini, le foglie e i grappoli; i tralci elegantemente disegnati salgono fino alla coppa, mentre il piede è coperto da spighe, con un perfetto simbolismo eucaristico”. E ancora, gli ostensori: “uno di essi è sorretto da un tronco di palma, abbracciato dalla figura simbolica della Fede; in un altro è un trionfo di strumenti bellici”. Cita inoltre il “reliquiario di San Nicola”, e “un’acquasantiera di forma elaborata, con due delfini che versano acqua in una conchiglia sorretta da due angeli desinenti, a guisa di sirene, in coda di pesce”. E via discorrendo di incensieri, candelabri, lampadari di cui uno è “ornato da leoni e da aquile”. In seguito, “dagli oggetti di culto si passa a quelli che abbelliscono le ricche dimore: tavoli, fumanti portavivande, tra questi ve n’è uno con un dromedario, in un altro, accanto alla figura dell’Europa, è quella dell’Africa con testa d’elefante mentre tiene nella sinistra uno scorpione e nella destra un ramo di corallo”. E ancora “cioccolattiere con tazze, orologi da tavolo, portafiori e specchiere con portacandele”. In sintesi, per dirla con Grigioni: “vera fantasmagoria di estrose invenzioni che sembrano esaurire tutte le possibilità della fantasia”, “eccezionale perizia tecnica nell’arte dell’argenteria” ma pure “illimitato dominio nel campo del fasto e della magnificenza, mantenendosi però quasi sempre nei limiti di un vigilato buon gusto”. 

La fama di Giovanni Giardini da Forlì lo rese non solo camerlengo degli orefici e argentieri di Roma ma a via a via salì i gradini della congregazione di Sant’Alò. Questa figura dal nome tronco sarebbe Sant’Eligio, patrono, appunto, di fabbri, gioiellieri, orafi, argentieri.  Il Santo viene raffigurato mentre riattacca la gamba ad un cavallo nel suo più curioso dei miracoli. Ebbene, se è vero che la confraternita cui fa riferimento la vita di Giovanni Giardini è pienamente romana, occorre ricordare che anche la sua città natìa ha avuto la sua Venerabile Compagnia dei Padri di Sant’Alò. Era eretta nella chiesa di San Biagio e gli atti dei suoi ultimi anni (dal 1753 al 1806) sono conservati all’Archivio di Stato di Forlì. 

I confratelli si radunavano “nella sagrestia di San Biagio” e “a bolettini” eleggevano le cariche della congregazione. Cioè votavano con fave bianche o nere rappresentanti il favore o lo sfavore di ogni sodale. Dai documenti che restano, si evince una particolare cura per “l’Altare di Sant’Alò” che doveva trovarsi nella chiesa distrutta dai bombardamenti del 10 dicembre 1944. La festa era il 25 giugno ed è difficile trovare un legame incontrovertibile con l’illustre collega e concittadino Giardini, argentiere del Palazzo Apostolico, fonditore della Reverenda Camera. Si può azzardare – chissà – che Tomaso Sughi, suo padrino di battesimo, sia parente con un Paolo Sughi il cui nome compare negli ultimi anni della confraternita forlivese. 

Per esempio il 14 ottobre 1762, il parroco don Francesco Castelli scrive che la festa di Sant’Alò venne “differita fino al sopraddetto giorno” perché la chiesa “in fabbrica” era “malmessa dal terremoto”. Pertanto non ci fu una vera e propria festa ma “si rifecero li ufficiali” (cioè vennero elette le cariche di priore, sottopriore e depositario). Non solo: “la medesima congregazione stabilì” che “per decoro dell’Altare di Sant’Alò” fosse realizzata una nuova “mutta di candelieri con vasi e candele”. Il 20 ottobre 1779, oltre all’elezione a priore di Francesco Vesi, “si propose se si doveva fare la Mensa dell’Altare di Sant’Alò” e questa “secondo il dissegno della già fatta di San Rafaello” però “marmoriggiata, e dorata secondo il dissegno da farsi dal Signor Luigi Mirri”. La proposta, al vaglio dei “dodeci confratelli” (cioè il parroco don Francesco Castelli, Pier Sante Benedetti, Sebastiano Placucci, Carlo Calandri, Natale Gandolfi, Giuseppe Tassinari, Antonio Merendi, Antonio Mattioli, Francesco Fortunati, Paolo Danesi, Pellegrino Perugini, Domenico Antonio Merendi) fu accolta positivamente con “dieci fave bianche, e due nere”. Così fu stabilito “che la detta Mensa debba farsi, e furono destinati a soprintendere al lavoro di detta Mensa a nome di tutta la Compagnia, Pier Sante Benedetti, Sebastiano Placucci, Natale Gandolfi”. 

Fu però più avanti che si verificarono dissapori immortalati su carta. Infatti, il 24 giugno 1804 vennero eletti priore Gabriello Cimaroli, sottopriore Francesco Vesi, sagrestano Carlo Nanni. E in tale occasione “furono accettati nuovi confratelli: Paolo Sughi, Antonio Bentini e Pietro Tavoletti”. Poi però “per supplire alle spese occorrenti alla Compagnia e per il mantenimento degli arredi sacri e dell’altare” venne deliberato di “rinnovare ogni giorno di domenica di tutto l’anno la questua da tutti li confratelli”. La raccolta fondi, già presente nella storia passata della confraternita avrebbe avuto un “garantimento di corrispondenza”, cioè una sorta di ricevuta, ben immaginando che “vi saranno alcuni dei Confratelli che per giustificati motivi non potranno dare soldi”. Tempo un anno, e il 30 giugno 1805 viene verbalizzato che “il Confratello Pietro Tavoletti si rifiuta più volte di dare la retribuzione prevista lo scorso anno”, egli avrebbe tra l’altro “aggredito anche con termini ingiuriosi” gli “uffiziali della compagnia” che si sarebbero sentiti “oltraggiati”. Ciò comportò che “fu risoluto da altri confratelli a pieni voti che fosse cassato dal ruolo della Compagnia, che non avesse più alcun diritto d’ingerirsi negli affari della medesima”. Insomma, Tavoletti venne espulso. Vincenzo Placucci, “moderno depositario della Compagnia”, avanzò di “volere proporre alla revisione dei conti l’amministrazione riguardante gli effetti della prefata compagnia” volendo dimostrare “la sua integrità” sia “nelle partite tanto d’introito quanto d’esito di cassa”. Il Priore Giuseppe Magrini, dopo attento esame, non trovò magagne nella gestione Placucci, anzi, si diede “il laudo” al confratello al cospetto del parroco Giovanni Battista Rambelli. 

Giovanni Giardini è sepolto a Roma, nella chiesa di Sant’Eligio degli Orefici, cioè Sant’Alò. Dopo la sua morte, la tradizione di famiglia in Roma proseguì con il nipote (figlio del fratello Sebastiano) Giacomo Antonio, forlivese di nascita e morto nella Capitale. Divenne anch’egli fonditore ufficiale del Sacro Palazzo apostolico. 



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