Antonio rivuole il suo sasso

In Duomo fu sepolto un Ordelaffi, la lastra tombale è a Berlino. Sarebbe da ricollocare dov’era, originale o copia che sia




Leggendo autori di storia locale di qualche tempo fa si nota una certa immedesimazione, una totale condivisione di pensiero e una costante presa di coscienza che Forlì è una città tendenzialmente accidiosa e poco propensa a darsi un’identità storica, men che meno a ricordare fasti e lustri del passato. Per esempio desta stupore che manchi in modo ormai irreversibile un segno importantissimo per le vicende locali: la lastra tombale di Antonio Maria Ordelaffi, ancora esistente ma a 1200 chilometri di distanza dal luogo da cui venne prelevata.

Ci sono ben poche tracce evidenti degli Ordelaffi nella loro Forlì. La storia (e gli uomini che l’hanno condotta) ha fatto sì che sparissero i loro sepolcri, per lo più presenti in San Francesco Grande e in Sant’Agostino, grandi chiese di cui è scomparsa ogni traccia tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Eppure in città sono ancora le spoglie dell’ultimo Signore “dalle branche verdi” benché nulla lo segnali. Un anno fa, lavori di consolidamento e scavi all’interno della Cattedrale hanno contribuito a scoprire cose nuove, e si è scavato proprio lì, dalle parti dei resti di Antonio Maria Ordelaffi, ivi sepolto nel 1504. Egli avrebbe voluto avere la sua ultima dimora a Fornò ma caduto nelle braccia della morte attraverso la malaria, interruppe bruscamente la sua Signoria durata circa tre mesi. Funerale frettoloso, fatto quasi di nascosto (erano tempi agitati) e dopo di lui il diluvio. Cercò di prendere le redini il fratellastro Lodovico ma ormai l’antica stirpe era fuori dalla storia e nel giro di qualche settimana tutto passò in mano allo Stato Pontificio di Giulio II. Eterno corteggiatore del cuore dei forlivesi, Antonio Maria visse quando gli Ordelaffi persero lo scettro, nel 1480, alla morte dello zio Pino III. Correva voce di un suo matrimonio con Caterina Sforza, nulla di fatto e rimase per lo più fuori dalle vicende cittadine se non per mettere il becco in qualche congiura. Dopo Caterina Sforza seguì la breve stagione dei Borgia e alla morte di Alessandro VI, il Papa-papà della famiglia di ascendenze aragonesi, Antonio Maria pensò che fosse finalmente giunto il suo momento. Cosa che avvenne nell’autunno del 1503: Forlì fu sua ma contrasse la malaria e spirò nel febbraio successivo a 44 anni senza prole.

Sfogliando i “Cenni storici della Cattedrale di Forlì” scritti dal sacerdote Domenico Brunelli e pubblicati nel 1882 per i tipi dello Stabilimento Croppi si legge della lacuna importante che dovrebbe essere colmata. A segnare la tomba dell’Ordelaffi c’era una pietra. L’autore del testo conosce gli antichi cronisti e da lì attinge, inoltre pare abbia conosciuto il Duomo nella versione precedente al restauro che l’ha reso nelle forme attuali. Descrivendo la “Cappella della Ferita o della Canonica”, cioè quella speculare alla Madonna del Fuoco, sulla navata destra, scrive: “Sotto l’arco di mezzo che mette a questa Cappella era un sasso assai logoro, nel quale ancor si vedevano questi avanzi di una latina iscrizione”. L’iscrizione è davvero frammentaria, roba da Settimana Enigmistica, e il monsignore diligentemente riporta ciò che si vedeva: (An...E/ Pr...T/ D...I). Aggiunge poi che il testo va colmato seguendo le indicazioni di una “Cronaca anonima esistente nella pubblica Biblioteca” e, più agilmente, dalla Storia di Paolo Bonoli. Ecco cosa vi si sarebbe letto: “Antonius Secundus Liviae / Princeps Gloria et / Decus Ordelaf MDIIII”. Cioè: “Antonio II, Principe di Forlì, gloria e decoro degli Ordelaffi”.

Facile? In realtà, aggiunge Brunelli, “Il Marchesi, però, nel suo Supplemento, dice che vi si leggevano i seguenti distici così divisi: Ordelafum sidus / Fulgens Antonius ille / Qui fuit insignis / Marte Togaque gravis / Marmoreo tumulo te/gitur sed gloria nomen / Fama colit terras / Spiritus astra poli”. Cioè, traducendo in libertà: “Antonio Ordelaffi, astro splendente, che fu glorioso in guerra e rispettato in pace, è qui sepolto sotto una tomba di marmo, ma il suo nome per gloria e per fama onora le sue terre e il suo spirito le stelle della volta celeste”. Dalla pietra tombale che conosciamo pare improbabile questa iscrizione e Brunelli, allargando le braccia, ammette: “Io non so a chi debba prestar fede”. Pur sempre è vero “che la suddetta iscrizione difficilmente capir poteva in quella lapide, e che le poche lettere che vi rimanevano non potevano in alcun modo esser legate con quelle dell’epitaffio del Marchesi sì riportato”. Che, nel tempo, la pietra tombale sia stata ridotta?

Il “sasso”, come detto, se ne andò da Forlì: in che occasione? Perché? Risponde sempre Domenico Brunelli: “Verso la fine del 1842 quando già si dava mano alla riedificazione della Chiesa, fu tolto via il sasso, e apertosi in quella circostanza il sepolcro, fu trovato ancora intatto il cadavere di quell’Antonio Ordelaffi”. Anche questo particolare è suggestivo e interessante. Nonostante il corpo ben conservato dell’antico Signore fosse lì, davanti agli occhi dei forlivesi di tre secoli e mezzo dopo, fu fatto scempio della lastra sepolcrale e chi sa se le spoglie siano ancora incorrotte. A tale dettaglio segue un altro commento del sacerdote: “e sarebbe assai desiderabile che vi fossero ricollocate e la lapide e l’iscrizione per conservare possibilmente le memorie antiche, la cui mancanza non è l’ultima cagione dell’ignoranza delle cose patrie, in cui ci troviamo”. Come non dargli torto? E perché, se proprio non fosse possibile chiedere la restituzione del manufatto, non realizzarne una copia (ben fatta) e collocarla in Duomo?

Già, perché la pietra tombale di 91x70 centimetri ora è a Berlino, al Museo Bode. Qui s’innesta un giallo: perché, se gli antichi cronisti parlano di “sasso assai logoro”, quello di Berlino sembra perfettamente conservato? Se la lapide era murata a terra, non pare consumata, né tantomeno sembra ci siano segni di calpestio. Era assai probabilmente collocata su una parete, anche se in ogni caso non pare proprio logora.

Senza aver mai osservato dal vivo la lastra sepolcrale, si chiede un parere su due piedi in via confidenziale a Cristian Casadei, artista forlivese, che porta a un’interessante conversazione messaggistica. L’opera, secondo Casadei, è “di grande raffinatezza, molto elegante a livello stilistico”. L’effetto raffinato è completato dall’utilizzo “del carattere Albertiano”. Il motivo decorativo è “pregevole”. “Mi sbilancio: ma non così tanto – aggiunge Casadei - potrebbe essere un’opera di un artista toscano o comunque di formazione toscana perché ne ha tutti i caratteri. Si vede che è un’opera importante. Molto elegante anche il motivo decorativo che corre intorno alla lastra, lavorato a niello e riempito di pasta nera”. La lastra “non sembrerebbe consunta” e ha “caratteri che denotano un’opera importante e anche molto ben conservata, si vede che non era terragna”.

Le otto lettere interpretate da Bonoli e Marchesi, oggi sono completate (nella versione del Bonoli). L’iscrizione è coronata in alto dalle iniziali “D.A” (vorrebbe dire: “secondo la volontà di Dio”) e in basso dall’acronimo “S.P.I.” che potrebbe significare “fatto a spese dello Stato” (probabilmente con l’eredità di Antonio Maria). Campeggia al centro della lastra lo stemma degli Ordelaffi sormontato da un elmo comitale a sua volta coperto da una specie di corno (come il copricapo dei dogi di Venezia) a foggia di testa di leone. Difficile reperire altre informazioni, si può immaginare che, durante il rifacimento del Duomo, il manufatto fu riposto in un deposito in città o altrove presso un collezionista fino a quando, negli anni Novanta dell’Ottocento, venne acquistato per arricchire la nuova collezione museale, là dove il tedesco non vedeva un “sasso assai logoro” ma un’opera d’arte.

Tornando ai “Cenni storici della Cattedrale di Forlì” si scopre che a pochi passi dalla tomba di Antonio Maria Ordelaffi, e precisamente ai piedi dell’altare della Madonna delle Grazie, fu sepolto il cronista Andrea Bernardi detto “Novacula”. Il suo epitaffio iniziava così: “Felsina me genuit, sed pavit Livia, prolis / Bernardae Andreas gloria prima fui”, cioè “Bologna mi partorì ma Forlì mi allattò; fui Andrea, la prima gloria della prole dei Bernardi”. E anche tutto ciò che fine ha fatto? La parola a Domenico Brunelli che nel 1882 con amarezza conclude: “Ai tempi nostri, però, e la occasione degli ultimi fatti ristauri, non si è rinvenuto vestigio alcuno né del Sepolcro, né dell’epitaffio, i quali non tanto avranno ceduto al tempo, quanto al solito costume di distruggere o trascurare affatto le memorie degli uomini e dei secoli andati”.

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