Per un cestello di frutta

San Giovanni Battista in Feliceto: dal silenzio dei canonici vestiti di bianco ai Cappuccini, un luogo perduto di cui emerge una perla preziosa

San Giovanni Battista in Feliceto e San Francesco del Guercino


Fino al 1810, l’area tra le vie Romanello, Andrelini e viale Salinatore era chiusa da un muro che poggiava sulle mura urbane. Su via Romanello si notava la facciata di una chiesa a ridosso della quale c’era un convento. Un foglio firmato da Napoleone decretò la sua soppressione: il 12 maggio 1810 venne espropriato da parte del commissario di Polizia e non fu neanche “graziato” da un uso alternativo, fu messo all’asta e venduto. I nuovi proprietari pensarono bene di rimuovere ogni traccia visibile dell’antico immobile fino ad allora abitato dai Cappuccini trasformando il tutto in casette.

Padre Vittorio Ottaviani, in “Dall’alba al tramonto”, scrive: “Da una statistica richiesta d’autorità al Superiore di Forlì, del 1810, l’anno della soppressione, nel convento vi era una comunità di 19 sacerdoti, 4 terziari perpetui e 4 domestici”. E sulla modalità della soppressione (una scena pietosa, vista almeno cinquanta volta in quegli anni) così spiega: “Al nostro convento si presentarono due impiegati demaniali, in nome della Prefettura, annunciarono al Superiore l’atto di soppressione e procedettero immediatamente agli inventari. I Religiosi avevano 20 giorni per lasciare il convento, venne loro data una somma per i vestiti civili e una meschina pensione vitalizia”. Ora ne rimangono, tra le case della zona, scarse vestigia di poco conto e irriconoscibili, tanto da essere una sorpresa, una novità, per molti forlivesi di questo secolo. Eppure, di questo luogo non est memoria initii, come si afferma in modo apodittico quando più o meno si osa dire che c’è sempre stato. Anticamente qui era il “fundus Feliceti”, o “Faliceto”, toponimo che si riscontra altrove in città, specialmente a ridosso del canale di Ravaldino, in quanto indica quasi certamente la presenza persistente di felci (con dizione migliore è “Feliceto”). Qui, fin dal Duecento (almeno), esisteva un piccolo luogo di culto dedicato a San Giovanni Battista, forse in origine curato da un ordine religioso cavalleresco. Venne per lungo tempo abitato dai canonici di San Marco di Mantova, ordine già scomparso nel corso del Cinquecento. I religiosi, vestiti con abito e tricorno bianco, osservavano un silenzio rigorosissimo, tanto che potevano parlare solo in caso di incendio o di assalto di predoni: le comunicazioni dunque erano affidate ai gesti, a parte il priore che poteva parlare sottovoce. Eleganti e asceti, i canonici erano obbligati alla povertà, all’obbedienza, alla castità, all’astinenza dalle carni (e spesso nemmeno uova e formaggi), a frequenti e stretti digiuni. Seguivano la Regola di Sant’Agostino ed erano aggregati alla Congregazione di Vincareto presso Bertinoro.

Già in tempi antichi questi religiosi erano pochissimi (dello stesso ordine erano a Scardavilla), pertanto la chiesa e il convento erano ridotti. Da documenti rintracciati da don Giacomo Zaccaria si evince che il 28 agosto 1430 “nella stanza ov’è solito radunarsi il Capitolo dei frati del convento di San Giovanni Battista in Feliceto” si incontrarono i priori dei conventi vicini appartenenti allo stesso ordine di Vincareto. Si scopre che nel convento forlivese “presentemente esiste solo il priore, fra Donato quondam Vesati di Forlì”. Fra Donato sosteneva che Giovanni Caffarelli, vescovo di Forlì, dal momento che era occupato da una sola persona, voleva prendere possesso di San Giovanni in Feliceto (compresi mobili e immobili afferenti) e assegnare il tutto a un altro ordine. Fra Donato non voleva saperne di andarsene, specialmente in seguito alla spoliazione del “dominus episcopus” sia che avvenisse “violenter” sia “alio modo”: voleva rimanere “prior, rector, administrator et gubernator” del detto monastero e dei suoi beni. Però sapeva che doveva scendere a patti, pertanto propose una “compensationem” ovvero una “transactionem” al “domino episcopo”: a sua eccellenza avrebbe dato “ducatos 126 auri venetos” e in cambio “dominus episcopus” si sarebbe impegnato a “non molestare vel inquistare”. Facile a dirsi: il priore non aveva mica quei soldi! Aveva provato a cedere alcuni immobili “sub pignore” ma nessuno aveva accettato. Così pensò di vendere due tornature di terra ortiva. Da ciò avrebbe ricavato 140 lire, una porzione dei 126 ducati proposti. Gli altri priori interrogati, approvarono la vendita della terra. Per spirito di sopravvivenza dell’ordine e per antichità del monastero, i religiosi convennero sull’esigenza di vendere ciò che è necessario pur di raggiungere la somma richiesta. I priori si raduneranno anche il 12 settembre a San Giovanni Battista in Feliceto per confermare la decisione della vendita per soddisfare in parte i 126 ducati da consegnare al Vescovo perché non prenda “violenter” possesso del convento e non lo passi ad altro ordine. Una cinquantina d’anni dopo, la cupola, precisamente nel 1487, venne affrescata da Palmezzano su cartoni del Melozzo: un tesoro che non fece in tempo nemmeno a essere fotografato dagli Alinari come la Cappella Feo, perché già perduta da un bel po’.

Con l’estinzione dei canonici di San Marco, San Giovanni Battista in Feliceto passò ai Gesuiti che però se ne fecero ben poco. La loro “centrale”, infatti, allora era la chiesa davanti a palazzo Albicini, in corso Garibaldi. Pertanto la cedettero a metà del Cinquecento ai Cappuccini che dapprima erano a San Giovanni in Vico (cioè la chiesa nota come “Cappuccinini”) dietro riconoscimento di un piccolo canone consistente in un cestello di frutta dell’orto di Feliceto. I Cappuccini, ordine giovane a quel tempo, erano in forte fase espansiva e chiesa e convento risultarono ben presto troppo angusti. Così nel 1651 atterrarono tutto, compresa la bella cupola, per costruire uno spazio più idoneo a una presenza numerosa.

Se la perdita della volta melozzesca pare imperdonabile, a difesa dei Cappuccini si ascolta il parere di padre Ottaviani che, sempre in “Dall’alba al tramonto”, scrive: “C’è da aggiungere che in due secoli e mezzo di permanenza, la chiesa, il coro e il convento vennero abbelliti con numerosi quadri, alcune statue e sculture”. I Cappuccini qui inoltre insediarono una scuola di filosofia e teologia, sacra eloquenza e noviziato, fornita di biblioteca i cui libri chissà che fine han fatto. Se buona parte di tanta ricchezza, a seguito delle soppressioni napoleoniche, è andata dispersa, qualcosa si è salvato: “Vi erano pure – scrive padre Ottaviani - tre grandi tele attribuite al Guercino, che attualmente una si trova nella chiesa di Schiavonia, raffigurante San Francesco; un’altra con la figura di San Giovanni Battista nella Pinacoteca comunale, e la terza tela è andata perduta”. Nel 1651, dunque, Guercino e bottega si misero all’opera per fornire parte dell’apparato decorativo della nuova chiesa dei Cappuccini. Il “San Francesco” commissionato dalla nobildonna Lucrezia Castellini, passato poi per mani private, a metà dell’Ottocento arrivò a Santa Maria Assunta in Schiavonia ove è attualmente collocato. “Il quadro rappresentante San Francesco è del Guercino, ma è alquanto sciupato ed abbisogna di restauro” si legge in un antico documento conservato nell’archivio di Schiavonia. E “alquanto sciupato” lo è tuttora. In questo 2024 in cui ricorre l’ottavo centenario delle Stimmate di San Francesco, un Comitato messo in moto dall’associazione culturale Metropolis e presieduto da don Nino Nicotra si sta impegnando, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati, alla riqualificazione dell’opera. Il Comune, nei giorni scorsi, ha ufficializzato il suo interessamento per valorizzare questa importante testimonianza di un luogo di Forlì che la storia ha cancellato.

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