Forlivesi, valenti dilettanti

Luigi Taddei, il “principe dei caratteristi” e la vivacità prolifica dei filodrammatici di Forlì, in Città e altrove


Luigi Taddei davanti all'ingresso del Teatro Comunale di Forlì

“Ei sempre nuovo si trasforma e piace, sia vecchio amante, ossia marito austero, o sindaco imbecille, od uom loquace”, così veniva ritratto un forlivese d’altri tempi: Luigi Taddei. Se il nome dice poco anche ai più attenti alle vicende locali, è forse perché si tratta di uno dei cervelli in fuga -  si perdoni l’espressione bruttina - che la Città ha avuto: morì a Napoli nell’agosto del 1866 mentre a Forlì era nato nel 1801. Fin da queste prime righe si può rivelare che da contemporanei e posteri era considerato il principe dei caratteristi. Cioè un attore, per dirla alla Treccani, al quale “è affidata l’interpretazione di personaggi con spiccate note di singolarità, talora quasi caricaturali”. Al di là di tutto, viene salutato come uno dei migliori attori del suo tempo benché le sue doti di “tragico” non abbiano riscosso successo. Si distinse, invece, come “brillante” e fu un magnifico “burbero benefico” per il repertorio goldoniano.

Una delle sue doti, per i più sarebbe stato un difetto: la “voce chioccia”, cioè aspra, roca e stridula – sostanzialmente sgradevole - come, appunto, il suono emesso da una gallina che cova. Un bel problema per chi vuole esibirsi su un palcoscenico. Quando era ragazzino nella sua Forlì, per esempio, si chiudeva in camera e da fuori si poteva ascoltare un “vociare animato di donne” con “varietà di toni, accenti e frasi” che “nessuno si volea persuadere che un uomo fosse e che quest’uomo potesse così veracemente, per così dire, moltiplicarsi”, si legge nella biografia scritta a suo tempo da Ignazio Ciampi. La voce particolare fu per il forlivese una fortuna o, per meglio dire, un ostacolo che con determinazione e abilità riuscì ad aggirare e a trarne gli aspetti utili a progredire nella carriera. Carriera che, come si può immaginare, fu itinerante, tra compagnie, teatri, impresari, valigie e bagagli. Se il caratterista principe debuttò al Teatro Comunale di Forlì a quindici anni, a vent’anni lo si trova al Teatro Nuovo di Firenze alternando farse di bassa lega a testi goldoniani, riuscendo festeggiato e coccolato dall’entusiasmo del pubblico che volle sue repliche per ventidue sere. I suoi ruoli più riusciti furono quelli da “Maldicente”, “Burbero benefico”, “Sindaco babbeo”, “Barbiere di Gheldria”, “Ajo nell’imbarazzo”, “Don Desiderio”, “Marchese della Locandiera”, “Conte del Ventaglio”, “Fabrizio degli Innamorati”. Di lui si apprezzava anche la meticolosità, la cura dei dettagli, il saper conciliare verità, natura e arte attraverso le espressioni del volto e l’interpretazione di personaggi perfetti per la sua figura, tanto che, ancora secondo Ciampi “si può temere che nessun altro dopo di lui potrà far rivivere le immaginazioni di Carlo Goldoni. Per lui que’ tempi e quegli uomini risuscitavano: il suo volto sembrava un antico ritratto in parrucca e cipria spiccato dalla tela”. Scartata la prova tragica (suo padre commentò che la sua interpretazione in quell’ambito sembrava parodistica), si esibì anche in “parti promiscue” come nel “Papà Goriot”. Nel 1830 sbancò a Parigi con “Euticchio della Castagna” e “Rosmunda” assieme a Carolina Internari. Nel 1841 si stabilì a Torino prima di finire i suoi anni a Napoli, specialmente al Teatro dei Fiorentini. Era figlio d’arte (anche il padre Francesco calcava il palcoscenico), aveva una sorella, Rosa, nota per essere, oltre attrice, pure una “poetessa all’improvviso” di successo. Una famiglia di artisti (anche Luigi, per esempio, scriveva versi e dipingeva) che ben calca il mondo dei talenti provinciali solo per nascita che sono partiti da San Mercuriale. 

Attilio Monti, ne “Le Accademie filodrammatiche nelle Cronache Forlivesi”, un quadernetto pubblicato nel 1924 dalla premiata Cooperativa Tipografica forlivese, riassume la storia dei sodalizi di dilettanti teatrali presenti nella Forlì ottocentesca, come l’Accademia dei Filodrammatici, l’Ateneo Forlivese, la Società Filodrammatica del Palazzo Benzi (questo sarebbe il nome corretto di quello che oggi viene chiamato Palazzo Braschi in via dei Mille) e la Società Filodrammatica dei Talentoni. Dedica spazio anche a quelle contemporanee al libretto medesimo: come la “Gustavo Modena” o la “Giacinta Pezzana”. Forlì, dunque, è una città “che ha tradizioni antiche e recenti di valenti dilettanti”, come scrive Monti, e ha sempre vantato un gran numero di attori, storicamente riuniti in sodalizi “che fiorirono fin da epoca lontana”. Infatti: “I primi accenni a recite di dilettanti comici si congiungono a vicende politiche, giacché il teatro rappresentava allora, specialmente nelle città medie, il cuore di esse”. Si scopre che gli attori dilettanti di Forlì, prima di calcare le scene del Teatro Comunale in occasioni di rilievo, in genere si esibivano nei locali confiscati ai domenicani (la chiesa di San Giacomo), e in San Filippo Neri. Oppure, con “teatro diurno”, spesso è indicato lo Sferisterio di via Porta Cotogni. Si fa menzione pure del “Mangellino”, la sede per un circolo di filodrammatici in Palazzo Mangelli di corso Diaz. E pure il palazzo Paulucci di via Maroncelli fu usato come teatro oppure il cortile dell’odierna Prefettura.

Attilio Monti, a conclusione delle sue 47 pagine, si chiede: “Perché non si tenta di venire ad una fusione delle ottime Filodrammatiche attualmente in azione?”. Motivando poi la domanda con: “Per il complesso veramente organico di tanti validi elementi, per la valorosa schiera di tante capaci e giovani forze, promessa ed onore per la Città nostra, la futura grande Accademia potrebbe certo affermarsi con immancabile successo”. Nulla di fatto: si sa, a Forlì soluzioni di questo tipo sono piuttosto rare. 

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