L'arciduchessa a Schiavonia

Nel luglio del 1599 arriva a Forlì Maria Anna di Baviera, madre del futuro Imperatore. Il suo pranzo in città e il suo legame con i gesuiti 


A Forlì, il luglio del 1599 inizia con un freddo imprevisto, tanto che nelle case si tornò ad accendere il fuoco. Il notaio Galleppini riferisce che in quei giorni “si videro le genti vestirsi di habiti da inverno”. Il giorno 4 – è questo il tema - a ridosso di Porta Schiavonia si fermò, con tutto il suo seguito, una donna importante. Era arrivata Maria Anna di Baviera, vedova di Carlo II Francesco d’Asburgo, arciduca d’Austria. Al tempo quarantottenne, da Graz si era mossa verso Loreto: tale era la meta del viaggio. Ma la tappa di Forlì fu chiesta addirittura da papa Clemente VIII. Come conferma Sigismondo Marchesi, infatti, l’arciduchessa fu accolta in Città “con ogni maggior pompa et honore secondo gli ordini del Pontefice”. 

Si hanno scarse informazioni su questa visita. Con pazienza, però, qualcosa, si trova benché il più lo si lasci all’immaginazione: “l’uno et l’altro Magistrato – racconta il cronista Padovani - andarono alla porta di Schiavonia ad incontrarla et riceverla et fuori della porta la incontrarono tutte le militie, sì della città come del contado”. Inoltre, “arivata in palazzo, nella capella de Signori Pacifici ascoltò due messe, una della feria, l’altra da morto, se bene era giorno di Domenica”. L’arciduchessa vestita a lutto, era infatti vedova da quasi dieci anni e dal 1590 influenzava la politica del figlio maggiore che, a differenza del padre, oltre a diventare arciduca d’Austria sarebbe più avanti assurto al titolo di Sacro Romano Imperatore dal 1619 col nome di Ferdinando II. 
Cattolica fervente nei prodromi che avrebbero portato alla guerra dei trent’anni, fu particolarmente munifica nei confronti dei numerosi indigenti e promosse concrete azioni di sostegno a donne povere, emarginate o incinte. 

Si sa inoltre che a Forlì “mangiò nelle stanze de Signori Conservatori” che “la pasteggiarono” come richiesto da Roma “insieme con tutta la sua comitiva”. E l’apparenza che di sé vuol dare il capoluogo romagnolo è di località sontuosa, degna dell’ospite: “era l’appartamento de Signori Conservatori, come quello delli Signori Pacifici, ornato più magnificamente che potesse fare la città”. 
Oltre a essere di strada, le ore di Forlì avranno avuto un motivo, un pretesto particolare? Da quel che si evince curiosando tra qualche sua biografia sommaria, pare che fosse appassionata di caccia e che avesse uno stile semplice, poco incline alla formalità, schietto, per così dire. Ma ciò non aiuta a dare una risposta alla domanda di cui sopra. Di certo è il suo sostegno alla Riforma cattolica (suo figlio Ferdinando ne divenne un campione) e soprattutto la sua amicizia con i gesuiti. 

Ecco, qui si potrebbe vagheggiare una risposta: da quarant’anni a Forlì c’era un collegio di gesuiti di un certo rilievo, almeno nelle intenzioni. Fu fortemente voluto dal vescovo “Tantecose” (così lo nomignolava Michelangelo – che evidentemente non lo sopportava – per certe sue smanie al limite dell’iperattivismo) Pier Giovanni Aleotti, di forte nobiltà forlivese. Egli aveva sollecitato perfino Ignazio di Loyola affinché aprisse un collegio nella sua Forlì. In seguito, almeno dal 1556 al 1559, brigò, affiancato da altri concittadini come suo fratello, il canonico Domenico Numai e il nipote Giuseppe Cortesonni (intenzionato a farsi gesuita), perché il suo sogno fosse realtà. La lunga trattativa meriterebbe di essere raccontata un’altra volta, basta dire che, forte della sua posizione (era stato guardarobiere e tesoriere segreto di diversi Papi) il vescovo Aleotti riuscì a portare a Forlì dodici padri della neonata Compagnia di Gesù. La biblioteca che da allora aveva arricchito lo studio e la ricerca forlivese dei gesuiti è finita in mezzo all’acqua e al fango dell’alluvione del maggio 2023. Non resta che l’auspicio (non solo teorico nè gravido di inutili sospiri) che la parte più importante di questo prezioso corpus pressoché sconosciuto ai forlivesi stessi si sia salvato e possa essere al più presto fruibile. I primi gesuiti ebbero sede in quello che fino a tempi recenti è stato un convento francescano, su corso Garibaldi. Oggi la facciata piatta della chiesa reca la scritta “San Francesco” pur essendo da poco meno di dieci anni in uso ai greco-cattolici romeni uniati e dedicata ai santi Michele e Gabriele. Prima dei gesuiti e per lungo tempo, quel luogo era la sede dei Battuti Celestini che obtorto collo dovettero cercare un’altra collocazione. 

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