Aristide e la pena di morte

Le considerazioni del ventunenne forlivese Venturini, morto cent’anni fa dopo una vita pienamente risorgimentale

Aristide Venturini (Forlì, 1843 - Bologna, 1924)

“Attendo nella notte e nella pace che la potenza delle tenebre si scateni contro di me per uccidermi. O ignominia gloriosa, il cui premio sarà il cielo! Come un leggero soffio di vento porta via un fiore primaverile, così il Padrone del giardino verrà a cogliere l’anima mia per condurla in paradiso!”. Così scriveva nel 1957 Jacques Fesch, ventisettenne francese mentre si avviava alla ghigliottina, strumento per l’esecuzione della pena capitale in Francia fino a poco più di quarant’anni fa. Che c’entra questo con Forlì e la sua storia? Cent’anni fa moriva il forlivese Aristide Venturini. 

Certo, chi abita dalle parti di viale Risorgimento lo conosce per odonomastica, per il resto è materiale per addetti ai lavori anche perché lasciò il suo fondo di libri all’Archiginnasio di Bologna dove si era laureato in Giurisprudenza nel 1866 e dove per lo più visse. Garibaldino, repubblicano, massone, come molti suoi concittadini “bene” del tempo, amico di Saffi, Carducci e altri nomi, si distinse in più processi (pure in quello di Villa Ruffi) come avvocato, qui però non si vuole indugiare troppo nella biografia. 

Desta curiosità un breve testo - “alcune considerazioni” - come sottotitola egli stesso, scritto da un Aristide piuttosto giovane, nel 1864 aveva ventun anni. In questo saggetto  di sette pagine pubblicato a Pesaro per la Tipografia Fratelli Rossi, dice la sua sulla pena di morte che, come è fin da subito in evidenza “deve abolirsi di fatto prima che di diritto”. L’occasione è data dall’insediamento del nuovo ministro di Grazia e Giustizia Giuseppe Vacca in anni in cui, di fresco unita, l’Italia aveva bisogno di un Codice Penale al passo coi tempi (che arriverà nel 1889). Secondo il forlivese, gli studi e gli sviluppi sociali ormai “dimostrano l’ingiustizia e la non necessità d’una pena non più in armonia colla dolcezza de’ nostri costumi, colla moderna civiltà”

Aristide Venturini, studente a quel tempo, non lesina diligenti citazioni di Montesquieu o digressioni sul diritto romano, non tanto per far bella figura ma per ribadire che, nonostante tanto progresso, “l’uomo è un essere limitato, imperfetto” e purtroppo “s’erge ancora, orribile a vedersi, il patibolo”. Eppure, il giovane è certo: “la pena di morte non è mai stata necessaria”. La sua estesa applicazione deriva da “un imperdonabile abbaglio” che fa sì che ne dipenda “un pervertimento nel senso morale delle popolazioni”. E così, a forza di chiedere teste, le “pene miti indicate e volute dalla natura bastanti alla conservazione dell’ordine” non “furono più sufficienti”. In questo modo “la pena capitale con tutti gli orrori che le fan seguito parve una vera necessità”. Fin dai tempi di Beccaria ciò era in discussione, ma era sempre prevalsa la contingenza tanto che divenne un’abitudine e, proprio in quel secolo turbolento, sembrava cosa poco avveduta privarsene. Quindi, secondo Venturini “per abolirla efficacemente di diritto” bisognava prima “abolirla di fatto”. Cioè non applicarla, non eseguirla, oppure proprio non comminarla pur lasciandola nell’ordinamento come possibilità estrema. “È un fatto – aggiunge - che dall’infausta applicazione della pena capitale è derivata la sua pretesa necessità”. Insomma, le alternative secondo il giovane Aristide sono due: “accrescere ogni dì l’atrocità delle pene” oppure “studiarsi di ridonare sensi d’umanità al popolo”. 

“Volete abolire efficacemente la pena capitale del codice? Abolitela di fatto: insomma togliete la cagione del male. Qual follia maggiore di quella di sperare nell’umano progresso e nella civiltà acciocché vengano i tempi opportuni a togliere questa pena, mentre si continua ad applicarla?”. Infine, rivolgendosi al nuovo Ministro di Grazia e Giustizia, prevede “una bella missione da compiere”, cioè appunto “abolirla di fatto”, cioè “coll’ottenere ogni volta la grazia nei casi speciali dalla regia clemenza”. Solo così, infatti, “la pena di morte cesserà allora d’essere necessaria”. Le “considerazioni” di Aristide Venturini non caddero nel vuoto: nel 1878 Umberto I concesse l’amnistia generale, cioè un’abolizione di fatto della pena di morte che di diritto sarebbe scomparsa nel codice penale entrato in vigore nel 1889. 

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