L'eredità di Caterina

La Tigre di Forlì, poco prima di morire, sottoscrisse il suo testamento. Chi ne beneficiò? I forlivesi di oggi, cosa vedono nella Rocca di Ravaldino?


Una data delle tante che forse è sfuggita ai più è quella del 28 maggio. Era l’anniversario numero 515 della morte di Caterina Sforza. Certo, non si tratta del dies natalis di una santa, anzi per quel che si sa per buona parte della sua vita non porse sicuramente l’altra guancia. Al di là di immediati giudizi da donna sanguinaria, vero è che, stando alle non sempre ineccepibili note biografiche del Burriel: "Ritirata nel palazzo Riccardi, in via Larga, a Firenze, diè principio ad una vita tutta veramente esemplare. La meditazione continua delle cose eterne, la lettura dei libri devoti, il tratto con persone religiose e spirituali, il frequentare i Sacramenti e le penitenze non interrotte, furono le sue uniche occupazioni e le sue uniche cose". Si tratta, è vero, di una Caterina senza Stato, con la famiglia (le famiglie) sparpagliata, ormai priva di ruggiti, con gli artigli spuntati, incanutita. Così, a Firenze, morì in quella primavera del 1509, nella tarda serata di un lunedì, a 46 anni. La campana della chiesa di San Lorenzo suonava lenti rintocchi.

Già nell’aprile era malata, poi guarì ma la stoffa ormai era lisa. Non furono sufficienti le cure dei due medici, cure basate su esperimenti della Tigre stessa (più o meno impiastri bollenti) non bastevoli per sfiammare una forte polmonite. Immaginandosi il trapasso, qualche ora prima della morte sottoscrisse il testamento. Il documento che ne uscì fu paradigma di equità, per quel ch’era possibile: la prole, del resto, discendeva da tre padri diversi. Nell’atto, si legge nella biografia di Graziani e Venturelli, “c’è anche la volontà di farsi perdonare i suoi eccessi, ma non vengono fatte confessioni: saranno le opere, cioè le elemosine e i suffragi, ad ottenerle il perdono di Dio e la sua grazia”. Nelle disposizioni è chiara la preoccupazione materna per Giovanni (dalle Bande Nere), figlio undicenne bisognoso di tutto: chiese per lui ottimi tutori onde educarlo al meglio, e gli volle affiancare Mora Bona, la sua devota ancella di colore. Dispose poi legati particolari per le nipoti Cornelia e Giulia, per Baccino da Cremona, a vantaggio di alcune dame di compagnia, per il convento di San Girolamo a Fiesole, per il convento delle Murate di Firenze, e assicurò offerte per giovani ragazze povere in modo che potessero contare su una dote. A Firenze, inoltre, lasciò un capitale che servì da un lato per costruire la cinta muraria, dall’altro era destinato alla fabbrica della Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Secondo le sue volontà, fu sepolta senza sfarzo nella chiesa delle Monache Murate in Firenze. Non volle segni distintivi, niente sulla lapide. Anni dopo, sulla tomba della nonna, Cosimo de’ Medici fece porre tale iscrizione: “D.O.M. /Catherina Sfortia / Medices / Comitissa et Domina / Imolae Forolivii / Obit IV Kal. Junii / MDIX”. La lapide fu rimossa e andò perduta nel 1835. Della questione delle ossa incautamente disperse, il Foro di Livio s’è occupato anni or sono.

Ora, si può parlare di testamento anche in senso lato: da qualche mese la Rocca di Ravaldino è tornata fruibile alla cittadinanza e, in più occasioni, “colorata” dalla presenza di ricostruttori con l’intento di “far rivivere Caterina a Forlì”, come spiega Gian Marco Babini de “Il Drago Oscuro”, una delle realtà associative che, con “Fama Leonis” e “La Rosa dei Venti” hanno animato – con numerosi volontari – alcune giornate tra migliaia di curiosi. Anche il recente Festival di Caterina Sforza pare aver consolidato una riscoperta di quello che per troppo tempo è stato un non-luogo, la Rocca, appunto, sede pure di appuntamenti estivi. Molto è ancora da fare, per esempio: come allestire un percorso storicamente interessante all’interno del fortilizio? Insomma, cosa c’è “da vedere” oltre a una successione di stanze, spesso intonacate? Se parte della struttura potrebbe essere destinata alle associazioni di cui sopra, altra dovrebbe presentare manufatti o raccontare episodi storici di Forlì, ricordando che non c’è stata solo Caterina (chi ricorda gli Ordelaffi?). Si resta, dunque, in attesa di prossimi sviluppi.

Quella che ora si vuol chiamare un po’ avventatamente “Rocca di Caterina” resta un’eredità di quella donna terribile ma – congetture da posteri – mediaticamente efficace, attrattiva, sperando che cada in desuetudine la recente moda di definirla “Leonessa di Romagna” laddove sarebbe proprio indicarla (e così è nota all'estero) “Tigre di Forlì”. Oltre alla Rocca, vi è poi da ricordare il complesso della Ripa, edificato anche grazie a sovvenzioni della signora controversa. Nel frattempo, oggi, quei concittadini che amano vestirsi come secoli fa, con abiti, stoffe, armature e attrezzature costose e non certo improvvisate, stanno promuovendo una raccolta fondi attraverso la piattaforma Ginger per “insediare nella Rocca un progetto medievale e rinascimentale”. I passi che finora sono stati mossi, quando si è trattato di far vedere banchi e costumi, toccare con mano, sentire il clangore delle lame, par che siano stati graditi: per proseguire su questa strada c'è bisogno di risorse, passione e coinvolgimento. Ce la farà quella parte di forlivesi che ama la propria città, a riscattare l’eredità di un personaggio storico forte e complesso?

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