Il forlivese che illustrò l'Italia

Nel giugno del 1463 moriva Biondo Flavio, grande umanista che, qualche anno prima, aveva terminato di compilare una straordinaria guida alla scoperta del Belpaese


Dopo la morte di Eugenio IV, papa di cui era segretario e per cui svolse mansioni da ambasciatore, Biondo Flavio cadde in disgrazia, inviso a molti. 
Chi era, dunque, il principe degli umanisti, vissuto tra il 1392 e il giugno del 1463?
Si sa che ebbe meriti che da soli darebbero luogo a intitolazioni – ora inesistenti – a vari istituti culturali nella sua città d’origine, l’ingrata Forlì: fu, per esempio, colui che coniò il termine “Medioevo” e il primo ad analizzare con metodo archeologico gli antichi monumenti di Roma. 
L’intento, qui, non è farne una biografia ma di tracciarne un dettaglio curioso e rilevante, usando quanto possibile le sue stesse parole, la sua voce, soffermandosi in particolare su una delle sue opere: “Italia Illustrata di Biondo da Forlì”. 

L’Italia, da lui definita la “parte principale di tutto il mondo”, è descritta con le sue numerose e onuste città. Per Forlì, cioè la sua radice, ritaglia non poco spazio in mezzo a un guazzabuglio ordinato e – se così si può dire – emotivo, una congerie di corti, rovine, accademie, letterati e vicende epocali. Con rigore, sintesi (molto apprezzata) e agilità racconta, per meglio dire “illustra” il Belpaese in un testo che chiamerà “Italia Illustrata”. Già il titolo sembra quello di una rivista patinata di viaggi o turismo, una cosa contemporanea o moderna. In effetti, precorre i tempi sia nel modo sia nello stile: pur essendo un testo quattrocentesco potrebbe essere letto da chiunque senza difficoltà eccessive. 

Aveva 57 anni quando l’erudito curiale, indebitato, con dieci figli da mantenere, capì che Roma non lo voleva più e iniziò a girare per l’Italia. O, quantomeno, fissò su carta le sue precedenti scorribande da ambasciatore, le sue esperienze professionali, gli appunti di quanto, nella vita e nello studio, aveva appreso. Nel 1447, infatti, era morto il suo protettore Eugenio IV e il successore pensò di chiamare uomini nuovi al suo servizio. Il posto di Biondo Flavio fu preso da Lorenzo Valla. Era l’autunno del 1449 quando il forlivese, messa al sicuro la famiglia in alcune sue proprietà, decise di partire, di partire da solo alla ricerca di un nuovo impiego o solo per il gusto di vedere il mondo che aveva studiato, di conoscere nuove cose, di toccare con mano rovine, vedere scorci, città, ascoltare storie e dialetti, confondersi tra quelli che secoli dopo si sarebbero chiamati generalmente italiani. Qualche decennio più tardi, la conoscenza e l’esperienza europea si apriranno a viaggi di ben altra portata, oltre l’Oceano, verso il Nuovo mondo. 

In un decennio triste, di insuccesso, forse senza immaginarselo, ha scritto una sorta di guida turistica per l’Italia esibendo un gusto piuttosto moderno. Non ci sono le suggestioni o le immaginazioni care al medioevo, però si nota un rigore storico, un’attenzione alle vicende legate ai luoghi, cercando di coniugare la storia con la geografia e con tutte le altre aree dello scibile umano senza cadere nel pedante o nell’accademico. E, in più, ci mette tanto di suo: “havendo a camminare tutta Italia”, infatti, delinea o – per così dire – inventa l’Italia quando ancora era frammentata tra signorie in disfacimento, potentati stranieri, città alla ricerca di un’identità forte e illustre, attingendo volentieri dalle glorie imperiali di Roma. “Questa mia fatica – scrive - habbia ad essere non più una descrittione de l’Italia, che de gli huomini chiari, et illustri, e quasi un compendio de le historie de Italia”. L’idea che comunque si ha, è che “Italia Illustrata” sia un viaggio personalissimo, quasi interiore, di chi l’ha scritto: è l’Italia secondo un forlivese del Quattrocento, uomo di mondo ma pur sempre uomo avvinghiato alla propria terra, medievale ma già rinascimentale. 

Nella prima parte si trova una determinazione delle regioni della Penisola, affare non chiarissimo in tempi di frammentazioni in Stati e Staterelli. 
Secondo Biondo, sarebbero: “Il Genoesato detto già la Liguria; la Toscana detta Etruria già; la Campagna Maretima di Roma, già detta Latio; il Ducato di Spoleti, che fu l’Umbria; la Marca d’Ancona, chiamata già Piceno; Romagna, che fu la Flaminia, e l’Emilia; la Lombardia detta già Gallia Cisalpina; il Ducato di Vineggia (Venezia); la Marca Trivigiana, chiamata già Italia traspadana; il Friuli, o l’Aquileia; l’Istria; l’Abruzzo, detto già Samnio; Terra di lavoro, già detta Campania; la Puglia; Lucania, che dicono hoggi Basilicata; Terra di Brutij; Terra d’Otranto, che furono i Salentini; la Calavria”. 
In particolare, la Romagna, “detta anco Romagnola, e da li antichi Flaminia” è collocata “tra la Foglia (…) e l’Apennino, e ‘l mar Adriano, la palude Padusa di qua di Po”. Bologna compresa (fino al Panaro). Insomma, s’intende tutta la fascia che da Pesaro giunge al Po, avendo per confini naturali il mare e l’Appennino. Essa fu chiamata Romagna “da Carlo Magno, e da Papa Adriano primo, dopo la ruina de’ Longobardi”. In tempi danteschi, però, Firenze si era fatta largo tracimando verso l’Adriatico: “Da cento anni adietro in quale cose di Fiorenza sono gite così bene, e prospere, che è meraviglia à dirlo, ella s’ene di nostri insignorita di Castro Caro, Mutigliana, Dovadula, Casciano, Portico e d’altre castella ne la Romagna”. 

Avvicinandosi a Forlì, parla un po’ di Ravenna, famosa per “gli asparagi” e per gli “ottimi rombi” che prosperano nel mare Adriatico: “Martiale dice, che ivi sono molte ranochie, come anco hoggi vi sono”. Descrive i suoi corsi d’acqua “quel che è à man dritta è chiamato Montono; quel ch’è à manca, fu già detto Viti; ma hora il chiamano Aqueduto” (quest’ultimo sarebbe il Ronco). Risalendo l’acqua, dunque, si arriva “ne la strada Flaminia” presso “l’antica città di Forlì detta da gli antichi Foro di Livio”. Qui non fa mistero dell’attaccamento alla sua terra: “ne il dico per vantarmi; perch’ella sia patria mia”, specialmente riferendosi all’enologia: “fra gli buoni vini d’Italia vi numera Plinio anco il nostro” ma va pure ricordato che Forlì “ha havuti singolari huomini, e massime litterati”. In cima pone Cornelio “Gallo poeta ricordato da Vergilio e da Oratio”. Inoltre, cita “Guidon Bonatto principe de gli astrologi, e Rainiero Arsendo gran iurista”, e poi “Checco Rubeo e Nereo Morando, dottissimi huomini et amici di Francesco Petrarca”, e “Giacomo di Torre, e Giaco Alegreto”, nonché “Ugolino Urbevetano da Forlivio”. Sarebbe poco proficuo qui riportare l’elenco che per sommario comprende pure capitani di ventura e uomini di illustri famiglie. Già che c’è, parla di casa sua: “habbiamo anco gran speranza col volere d’Iddio in cinque Biondi nostri figliuoli, i qual tutti, secondo le loro età son ben litterati”. 

Discorrendo di Forlì parla altresì del suo “terreno fertilissimo e dotato di molti beni da la natura” perché “oltre, che fa frumenti d’ogni sorte, ogli, e vini, come gli altri luochi de l’Italia, abonda anco di molti semi aromatici, che per tutta Italia non sono altrove che in Puglia”. Biondo, tra questi “semi aromatici” ama riportare: “Anisi, Cardamomo, Feno greci, Cimino, Cogliandri”. 
Riassumendo il più possibile la storia della sua città non può non citare l’episodio glorioso del Sanguinoso Mucchio e la conseguente collera del Papa che volle “spianare del tutto le mura”. Con Forlì viene citata “Castelcaro, terra chiamata prima Salsubio da un salso fonte che vi scaturisce”, ma pure “Dovadula, e poi Casciano, e poi su un colle alto è Portico”, nonché “Sarsina”. 
Aprendosi l’estate, si potrebbe girare l’Italia guardandola con gli occhi curiosi e attenti di Biondo Flavio, o Flavio Biondo, il forlivese. 

Commenti