La voce del Pistocco

Un compositore castrato, maestro di canto, dopo anni nelle corti europee per un lustro fu a Forlì, a due passi da piazza Saffi

Francesco Antonio Pistocchi nella chiesa forlivese di San Filippo

Era il 26 maggio del 1720 quando “si solenizzò la festa di San Filippo Neri nella sua chiesa con la solita pompa, e con un Panegirico in lode del Santo fatto da un P. Capuccino, e furono sostenuti li soliti Signori a pranzo conforme il consueto che gli anni passati”. Si tratta della chiesa di via Giorgina Saffi dedicata al Protettore dei giovani, cui era annesso, almeno fino al 1969 l’edificio un tempo adibito a convento dei filippini, poi sacrificato senza pensarci troppo per sostituirlo con la moderna scuola elementare in seguito intitolata a Diego Fabbri. L’estensore di queste righe scarne, compilando un diario forlivese di qualche anno del Settecento, non si perde in fronzoli e non ci consegna particolari. Nulla si sa del “pranzo” che come “gli anni passati” si usava fare in quel convento per “li soliti Signori”. Ma pazienza. Invece pare suggestivo ricordare che un mese dopo o giù di lì, se ne andò uno di quei padri filippini, e non era uno qualunque. 

Infatti: “Abandonò la congregazione de’ Padri di San Filippo il Padre Pistocchi, famoso musico, o così sforzato dalle longhe persecuzioni soferte dalla stitichezza di alcuni di que’ boni Padri, o pure così istigato dal proprio suo naturale incostante, e non ben sodisfatto di vivere sotto le regole di una esatta obedienza”. Chi era il “Padre Pistocchi”, in arte “Pistocchino” o “Pistocco”? Anzitutto si pensa che “stitichezza” qui voglia indicare un’eccessiva parsimonia che poco si potrebbe confare a un artista di fama, o un’eccessiva oculatezza della comunità dei padri filippini forlivesi che stava, appunto, “stretta” al Pistocco. Sarebbe curioso approfondire quali “longhe persecuzioni” abbia sofferto in quel di Forlì, ma altro non è scritto. 

“Famoso musico"? Così lo definisce il compilatore del diario settecentesco conservato nel Fondo Dall’Aste Brandolini presso l’Archivio di Stato di Forlì. Di lui oggi rimangono alcune decine di partiture, pressoché segrete e nemmeno catalogate in modo opportuno. Si tratta di composizioni non solo destinate a chiese o sacre rappresentazioni ma anche di carattere profano. Tuttavia, alla fine dell’Ottocento quel po’ che di lui si poteva ascoltare veniva liquidato come “cose all’antica” od opere da valutare “a peso” per vedere “se si può ricavare qualche cosa di più della carta”. Una stroncatura propria dello spirito del secolo da parte del compositore bolognese Alessandro Busi, con buona pace del cantante castrato Pierfrancesco Tosi che lo aveva definito “musico il più insigne de’ nostri e di tutti i tempi”, degno di fama “per essere stato egli l’unico inventore d’un gusto finito e inimitabile, e per aver insegnato a tutti le bellezze dell’arte senza offendere le misure del tempo”. 

Suo babbo era un violinista romagnolo ma Francesco Antonio Mamiliano Pistocchi (detto “Pistocchino” o “Pistocco”) nacque a Palermo nel 1659. Il desueto nome Mamiliano, in effetti, riconduce a un vescovo di origini palermitane, martire perseguitato dai Vandali nel lontanissimo Quinto secolo e che finì i suoi giorni nell’isola di Montecristo, nell’arcipelago toscano . Della vita del compositore, cantante e maestro di canto si sa che la sua formazione fu bolognese dove, giuntovi col padre, fu membro dell’Accademia dei Filarmonici già a otto anni. Un bambino prodigio, quindi, che ben presto s’accinse a comporre oratori e opere teatrali oggi del tutto sconosciute. Non sarebbe stato però questo il talento artistico che lo contraddistinse bensì il canto. Come voce bianca soprano e come “contraltista” poi (cioè voce maschile specializzata nel registro contralto) si esibì in corti italiane e straniere, conteso tra teatri e principi, frequentò i grandi nomi del tempo come Alessandro Scarlatti, Giuseppe Torelli, Giacomo Antonio Perti. La carriera da castrato e da compositore lo portò a raggiungere località oltre le Alpi. Nella maturità fu presente pure in corti tedesche, specialmente in Prussia, ispiratore di molti lavori di Haendel (che in parecchie partiture, in effetti, lo avrebbe imitato), poi a Vienna, per il Carnevale del 1700, presso Leopoldo I d’Asburgo che lo ebbe particolarmente caro per l’abilità nel comporre madrigali in stile antico. In seguito a un inevitabile declino della voce (i maligni dicevano che “l’articolazione del suo trillo” ormai era da paragonarsi “allo scuotimento di un sacco di noci”), si ritirerà a Bologna per dedicarsi più che altro alla musica sacra per la cappella di San Petronio o esibendosi nei palazzi aristocratici. Sotto le due torri, dal 1705, aprì una scuola che preparò la strada agli evirati cantori come Bernacchi o Farinelli. Dieci anni più tardi, come altri suoi colleghi del tempo, vestì l’abito religioso facendosi prete. 

Ergo s’innesta l’esperienza forlivese: cinque anni nella casa della Congregazione di San Filippo Neri, nell’attuale via Giorgina Saffi. Pistocchi vi entrò nel 1715 e qui ebbe mezzi e spazi a disposizione per la sua attività di musicista fino a commissionare un organo tutto nuovo, costruito da Francesco Traeri. In questo lustro compose alcuni oratori, tra cui “La spiegazione de’ sogni di Gioseppe ebreo” rappresentato a Rimini nel 1716 e “La fuga di Santa Teresa” messo in scena proprio a Forlì nel 1717. Fece a tempo a musicare pure “Il sagrifizio di Gefte” ma lo allestì a Bologna, nel 1720 dove, malaticcio, sarebbe morto sei anni dopo. All’inizio dell’estate del 1720, infatti, aveva deciso di levare le tende da Forlì. 


Commenti