Gli enigmi del santo perduto

Valeriano, con gli ottanta compagni martiri, era l’antico patrono principale di Forlì. Perché non si venera più? Cosa si sa di lui?



4 maggio 1892: “è la solennita del protettore San Valeriano”. Il virgolettato è tratto dal Diario Forlivese di Filippo Guarini e presenta una consuetudine, una tradizione forlivese di cui da oltre cinquant’anni non resta alcuna traccia. In sintesi, con la concisione propria di chi sta raccontando una cosa che tutti i contemporanei conoscevano: “Alle 8 ½ si fa la Processione del Sacro Braccio intorno alla piazza del Duomo, coll’intervento del Capitolo del Clero e delle Confraternite. Alle 10 S. Eccellenza Monsignor Vescovo tiene Pontificale solenne; la musica è diretta dal maestro Romagnoli. La sera Vespri solenni in musica sono diretti da lui e don Giovanni Calandri”. Sacro Braccio? San Valeriano? Di chi o cosa sta parlando?

Si tratta di un antichissimo culto scomparso. Nel 1967, la Congregazione dei Riti decise che San Valeriano, fino ad allora patrono principale di Forlì, fosse la stratificazione di più figure di martiri, o un omonimo santo romano. Secondo le conclusioni di allora, la storicità del Santo era estremamente incerta e si preferì depennarlo dal calendario. Con tale deliberazione caddero in disuso i riti del 4 maggio che per secoli avevano scandito la vita civile e religiosa del capoluogo romagnolo. Si affermò che San Valeriano di Forlì fosse in realtà San Valeriano di Roma, marito di Santa Cecilia, coppia venerata il 22 novembre. In effetti, nella storia della Forlì medievale la festa patronale pare fosse il 22 novembre. Ora, il Santo è venerato l’8 novembre, con “Tutti i Santi della Chiesa di Forlì-Bertinoro”, specificamente: “San Valeriano e Compagni, martiri, venerati per lunghi secoli come patroni della Città di Forlì”. Un defensor urbis, dunque: per secoli i forlivesi non si sono posti troppe domande, si accontentavano di vederlo percorrere a cavallo le mura con gli ottanta suoi fedeli amici, fantasmi utili per testimoniare e rivendicare una santità civile, cara ai concittadini di una volta, assai più attaccati al campanile che ora. Anzi, essendosi disfatta delle mura in fretta, si può dire che Forlì abbia perso anche questo sostegno sovrannaturale.

Anticamente, infatti, Forlì vantava due patroni principali: San Mercuriale (allora si festeggiava il 30 aprile) e San Valeriano (4 maggio). Vicini nel calendario come vicine sono l’abbazia in piazza Saffi (San Mercuriale) e la cattedrale in piazza del Duomo (San Valeriano). Già, perché la cattedrale di Forlì era dedicata oltre che alla Santa Croce pure a San Valeriano il cui culto era destinato a moderare la potenza dei vallombrosani del Campo dell’Abate riportando la centralità alle prerogative del Vescovo. Due poli di potere religioso e due patroni. Prima dell’aquila, lo stemma di Forlì doveva mostrare un uomo a cavallo con uno scudo crociato: San Valeriano, appunto. Da lui prendeva nome il rione del Duomo, una porta scomparsa e una frazione (San Valeriano in Livia, poi contratta in San Varano).

Infatti, così si legge ne “L’amor patrio”, un libretto compilato dagli alunni del seminario di Forlì nel 1852 e dedicato al vescovo Mariano Falcinelli Antoniacci: “A mezzo della via, che da Forlì mette a Terra del Sole, incontrasi una celletta su di un podere di Sua Eccellenza il Gonfaloniere Pietro Guarini. Ella racchiude il pozzo in cui i Cattolici, dopo ritrovati i cadaveri de’ loro compagni trucidati, li nascosero, per sottrarli al furor degli Ariani, ed alle ingiurie delle bestie. Il fatto vien testificato anche dalla lastra di marmo che gli è coperchio, su cui leggesi il seguente distico: Flecte genu, lector: fertur quod Martyr in istis / obtinuit tumulum Valerianus aquis”. Intanto si capisce che ancora nel 1852 esisteva una lastra di marmo, che più tardi sappiamo essere stata sostituita da una di bronzo. Insomma, la traduzione più o meno è questa: “Inginocchiati, lettore: si dice che San Valeriano ebbe sepoltura in queste acque”. I corpi, dunque, furono gettati in un pozzo per essere in seguito raccolti e sepolti in un luogo fuori porta Schiavonia detto Livia.

Le spoglie furono portate in Cattedrale e ivi sepolte “con le lor mani” dai santi Grato e Marcello, come scrive Cobelli che colloca questa vicenda a metà del Quinto secolo. Molto tempo dopo, nel 1267, nell’arca delle reliquie furono trovati tre scheletri e due lamine di piombo, ancora esistenti. Per quanto riguarda le iscrizioni sopra di esse, il canonico Adamo Pasini diede questa interpretazione: “Decapitato per nome del Re eterno, martire qui giaccio io Valeriano: prima mi custodì Roma nelle sue celebri Catacombe, ora mi conserva Forlì fra numerosi Santi”. Ecco dunque il caos: Valeriano di Forlì? Di Roma? Di chi sono quelle ossa?

Difficile avere un’idea univoca pure della sua vita, perché le leggende s’intrecciano senza soluzione. Per alcuni è forlivesissimo, e qui si distinse liberando da Lucifero la figlia di Olibrio. Cobelli, però, lo dice armeno (come San Mercuriale). La fama di esorcista lo avrebbe condotto a Costantinopoli, alla corte dell’Imperatore Leone e in Romagna sarebbe tornato per difendere Forlì dall’arianesimo (più o meno come il collega Mercuriale). Oppure si rifugiò nella periferica Forlì per sfuggire alle persecuzioni. Oppure era in animo di contrastare i Goti, nel pieno delle invasioni barbariche. Di certo che i forlivesi lo adottarono subito come uno dei loro, comandante dell’esercito virtuoso, pio e fedele. Figura carismatica in tempi fuori controllo e assai fumosi, seppe ergersi come protettore della Città già in vita, uno di quei valentuomini alla forlivese che parlano poco e agiscono molto, pregano nel segreto e hanno un carattere testardo, forte, intransigente. Fu proprio nei pressi dell’odierna San Varano che, dopo aver sconfitto l’esercito dei Goti, subì la vendetta del barbaro Leobacco. Riunito in preghiera con ottanta compagni, fu da lui sorpreso. Leone Cobelli scrive: “Potevasi difendere e non volse, anzi confortava tutti i compagni alla palma del martirio, e così quelli cavalieri presero il beato Valeriano e gli tagliarono la testa. Poi Leobacco uscì fuori dalla città di Forlì e diè addosso all’esercito del beato Valeriano e tutto lo tagliò a pezzi”. I resti finirono nel pozzo su cui poi fu costruito un piccolo oratorio che ora non esiste più. Una preghiera ottocentesca messa in musica dal maestro Luigi Favi così terminava: “Or a Livia lo sparso tuo sangue / ravvalori la fede che langue / e ridesti l’antica virtù. / Per te agli empi l’audacia sia doma, / loro avvolgi la man nella chioma, / e li traggi all’ovil di Gesù”.

In conclusione, non è chiaro perchè questa figura sia completamente sparita dal radar delle memorie comuni forlivesi, smarrita, perduta. Eppure, se per mille e cinquecento anni fu venerato tanto da rappresentare Forlì stessa, pare proprio che ce ne sia sbarazzati un po’ troppo facilmente. Di certezze ce ne sono: l’uomo Valeriano, i suoi discepoli, la sua fama, la tomba che fece fiorire dapprima un culto agricolo poi sempre più cittadino con tanto di processioni e pellegrinaggi, il suo ruolo di “patrono” assestato nel Quattrocento.

Gli Annales Forolivienses lo definiscono: “verus pugil, ductor, patronus, protector et defensor”, cioè “un vero campione, capo, benefattore, protettore, difensore”. Il rammarico è che le sue agiografie – è onesto dirlo - sono state scritte circa mille anni dopo... Non pare tuttavia così assurdo che le reliquie siano tratte da una qualche catacomba romana e attribuite erroneamente al marito di Santa Cecilia, poi confuso con un carismatico personaggio caro ai forlivesi, fors’anche un santo laico. Da ricognizioni del 1982 si sa che quei tre corpi appartengono a un marcantonio, a una donna e a un bambino. Se quell’omone fosse un tale Valeriano che, con la famiglia, viveva ritirato nei pressi della Livia e che si distinse nella difesa contro Goti e altri invasori? Un eroe, più che un santo nel senso canonico del termine. E se non fosse proprio un martire ma il primo eremita del quartiere che poi avrebbe preso il nome “Romiti”? Secondo don Franco Zaghini, le leggende che fanno riferimento a questo Santo, troppo tardive, “sono praticamente inutili per una seria indagine storica”. Le porte, pertanto, sono aperte all’interpretazione: al di là di tutto, spiace che il “Sacro Braccio” (questa è la reliquia più nota del Santo) sia ormai fuori dalle tradizioni locali. Se, recentemente, la memoria di San Mercuriale, anche grazie a più certe ricognizioni, sembra aver ripreso un certo vigore, perché non approfondire meglio le questioni in sospeso con il misterioso Valeriano?

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