Mezzadria, pace e giustizia

Mondo agricolo forlivese in subbuglio: il 7 aprile 1902 l’intervento del marchese Alessandro Albicini, la voce dei padroni



A fronte di ripetute “convulsioni spontanee o provocate” anche nelle campagne, il 23 febbraio 1902 alcuni possidenti terrieri si organizzarono nell’Associazione fra gli agricoltori del Circondario di Forlì, nata formalmente venti giorni prima. Il Novecento portava seco moderni ritrovati della tecnologia, rivendicazioni, scioperi che, se dapprima sono ristretti in ambito industriale e urbano, a via a via serpeggiarono anche tra i lavoratori dei campi.

I padroni, dunque, assistevano con preoccupazione alla schiera di “turbolenti, dei meno laboriosi” la cui azione danneggiava “i buoni, gli operosi, i bisognosi veri” rendendo inoltre meno produttiva l’agricoltura locale. Agitazione che non sarebbe stata “nè logica, nè giusta”, “nè sentita, nè onesta”.

“Sarà nostra cura adoperarci perché i diritti e i doveri di tutti si affermino” si legge nel manifesto firmato dal consiglio direttivo di cui risultano far parte: marchese Alessandro Albicini, conte Marco Antolini, commendatore Gustavo Biagini, conte Giuseppe Mangelli, professor Alessandro Pasqualini, ragionier Giovan Battista Ragusi, conte dottor Augusto Serughi. Si prometteva “illuminata modernità di pensiero e di sentimento” per il “miglioramento dell’agricoltura e dei lavoratori della terra” per raggiungere la “pace sociale” con chiaro intento di opporsi al diffondersi dell’ideologia socialista anche in agricoltura: “non dunque l’odio tra gli uomini, non la lotta fra chi possiede e chi lavora, ma la reciproca tolleranza, ma il pacifico accordo, ma la gara civile al meglio, e la libertà auspice e proteggitrice di tutti i desideri senza passione, di tutti gl’intendimenti senza inganno e senza egoismo”.

La documentazione qui riassunta è tra le carte raccolte nel Museo dei Mestieri e Professioni di Forlì, curato con estrema dedizione da Giovanni Severi a Vecchiazzano. Si sa pertanto che il 7 aprile 1902 si tenne un’adunanza della giovane Associazione che avrà come protagonista l’allora deputato Alessandro Albicini, marchese di Forlì, più tardi Senatore del Regno. Sarà lui a individuare nella “opera del partito socialista” l’origine delle agitazioni, nonché “l’essenza e la finalità” delle stesse, fin nei piccoli comuni rurali “tra i primi colli del forlivese, la cui piccolezza pareva doverlo risparmiare ai tentativi dell’avidità partigiana”.

Il marchese si poneva di esporre un’analisi equilibrata: “senza colorire o scolorire le tinte del vero” per comprendere “a quali proporzioni sia giunta, quale situazione abbia creato e a quali conseguenze ci si esponga”. Eppure – assicurò Albicini – “Il colono mezzadro, il quale, in confronto degli altri lavoratori, è il meno vessato dalla fatica e il più sicuro della mercede, mercede che la terra quasi sempre dà proporzionalmente al lavoro e alla capacità di chi la governa, il colono, dico, ha creatagli dal diritto e dalla consuetudine, una posizione morale ed economica assai migliore di ogni altra classe di lavoratori”. Se, infatti “in alcuni tempi dell’anno egli sta nel campo dall’alba al crepuscolo ad un’opera intensa e faticosa, in alcuni altri poco o punto lavora, sicché, fatta la media, si riducono a meno di 5 ore, con un vantaggio enorme sugli altri operai che hanno un minimo di otto ore di lavoro al giorno”. Il verbale dell’incontro a questo punto segna “vivissima approvazione”.

Insomma, il deputato aveva notato che la condizione dei coloni mezzadri del territorio forlivese era di “discreto benessere” con tanto di “certezza del pane”, mentre “il pensiero dell’incerto domani sconforta e mortifica a tanta povera gente che pochi forse conoscono e nessun partito difende”. Pertanto scrosciarono “applausi generali” quando aggiunse: “Estenuare le forze economiche di una classe a profitto di una che nella sua generalità non ne abbia bisogno, vale impedire che si dirigano al sollievo di altri veri e grandi bisogni della società”. L’argomentazione poi proseguiva: “Il colono mezzadro non è un salariato che serva il padrone, è un socio d’industria che presta l’opera dove altri presta il capitale; e la libertà di risolvere un contratto, che ha la durata di un anno, lo fa indipendente dinanzi al socio proprietario, al quale può chiedere, o miglioramento di condizioni, se riconosca ingiuste quelle che gli sono fatte, o abbandonarlo. Ma il più delle volte quando il colono sta male, il padrone sta peggio, ché non è il malanimo dell’uno che opprima l’altro, ma la miseria che li opprime entrambi”.

La mezzadria era un tipo di contratto agrario scomparso mezzo secolo fa attraverso il quale un proprietario di terreni e un coltivatore (il mezzadro) si dividevano (in genere a metà) i prodotti e gli utili di un’azienda agricola. Per l’Associazione tale sistema era “il più bello, il più armonico, il più equo, il più umano accordo tra il capitale e il lavoro”. Le preoccupazioni del marchese Albicini sorgono in un punto di non ritorno per la storia economica romagnola: l’avvento dell’agricoltura meccanizzata (allora ai primordi) avrebbe in effetti a via a via reso obsoleto questo tipo di rapporto. Il “principio della metà” faceva sì che il colono godesse “i vantaggi senza sentire nè il disagio, spesse volte poco tollerabile al proprietario stesso, dell’anticipazione nè il peso degli interessi che nessuno gli chiede”. Cioè, se la divisione delle rendite era “a perfetta, o più che perfetta metà”, tale proporzione non esisteva per “le scarsità del raccolto, i danni del maltempo, i rovesci della fortuna”. E poi ci si metteva la politica, i partiti che scuoteranno il confine tra Otto e Novecento muovendo le masse, come era accaduto per “l’agitazione per la semina delle barbabietole” che, tra proteste, dimostrazioni e intimidazioni, finirono per rovinare il raccolto. Si è sempre saputo che la Romagna non fosse una zona tranquilla.

Così Albicini raccontò episodi di intimidazioni a Villanova contro “un colono che aveva avuto il torto di obbedire al suo padrone”, minacce e ricatti contro quei contadini “estranei alla lega”, rendendo così una “settaria convenzione” di cui il deputato elencherà più casi. Violazioni di domicilio, soprusi, danneggiamenti e vessazioni ai coloni che si ponevano al di fuori di mene internazionaliste mentre, per contro, il Governo di Roma mostrava “reticenze” e “impunità” che foraggiavano il “sistema di prepotenze” tale a rendersi “impedimento alla libertà del lavoro”. Era “difficile od anche impossibile al proprietario l’esercizio di un diritto che in tempi più sereni nessuno avrebbe osato di contestargli”.

Quindi “considerato che detta agitazione è fenomeno artificialmente promosso da una fazione estranea alla classe dei contadini, sovvertitrice di ogni ordine sociale” l’Adunanza chiedeva formalmente al Parlamento un intervento a sostegno concreto per ristabilire pace sociale e giustizia. “Tutto ciò che si comprenda nello sviluppo d’innovazione, nel progressivo sviluppo delle idee, nel cammino dei tempi, nelle formule scientifiche, nelle ultime espressioni della civiltà, tutto si comprende, si compenetra, si confonde in una parola sola, sorta spontanea dall’ordine delle eterne cose, antica come il genere umano, eterna come Dio: giustizia”.

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