San Domenico: cosa c'è sotto

La chiusura nel Natale del 1866, le prospettive attuali alla riscoperta della presenza dell’ordine dei predicatori a Forlì fin dal Duecento


Il “quarto lato” del San Domenico è uno degli argomenti posti in risalto dalla cronaca locale di questi giorni. Si tratta dell’avvio dei lavori di un progetto che intende ampliare la capienza del complesso museale. Sarà quindi ricostruito, sebbene con le sensibilità care alle istanze dell’estetica contemporanea, un braccio un tempo esistente, parallelo a ciò che resta della discutibile “barcaccia”. Le ruspe, nel frattempo (com’era prevedibile) hanno scoperto vecchie fondazioni e si attende qualche approfondimento del caso. 

Il lato mancante era anticamente il “dormitorio minore” (otto stanze) con annesso granaio, parte del secondo chiostro realizzato nel 1505 su progetto di padre Agostino da Mantova. La fabbrica si rivelò piuttosto complessa e costosa e poté dirsi finita cinque anni più tardi. Il religioso, “dignissimo archetature” da “lo inzegno mirabole” (parola di Andrea Bernardi detto Novacula) avrà bisogno di “gram lemosine” per vedere compiuta la sua opera. In particolare, aprirono la borsa due mercanti chiamati Maso e Giacomo Fachini. A prova del prestigio che i domenicani godevano in Forlì vi è pure il lascito, qualche anno prima (1480), che Pino III Ordelaffi volle destinare al convento della sua città. Venuto a mancare il braccio ora riprogettato, negli scorsi anni, complice il suggestivo “ferro di cavallo” formato dalle porzioni superstiti del secondo chiostro, si è sfruttata la lacuna per spettacoli teatrali all’aperto. Chiudendo così alla vista l’insenatura bella e ormai caratteristica, la struttura si doterà di servizi e, si spera, significherà ulteriore spazio destinato ai musei civici, specialmente per quelli da decenni “invisibili”. 

Tra essi ce n’è uno conosciuto solo dagli addetti ai lavori: pronto già quattro anni fa ma rimasto congelato in un tempo sospeso. La lunga e incisiva storia del luogo è l’oggetto della ricerca, prima che tutto sbiadisca complice pure l’accidia dei forlivesi (per esempio, silenzio dice che non sia ritenuto interessante conservare l’ex distretto, ovvero il monastero della Ripa). Nel 2018, infatti, fu voluto e in gran parte realizzato un luogo dove si poteva “toccare” questa storia: è il “museo sotto il museo” che è ancora lì, sotto San Giacomo. Il percorso espositivo, progettato dall’architetto Gabrio Furani, racconta la vicenda del convento anche con disegni di Riccardo Merlo, illustratore di riviste specializzate, a suo tempo assoldato per la realizzazione degli apparati grafici.

L’allestimento a cura di Sergio Spada ha previsto armadiature nere in cui sono stati riposti materiali veri e propri, manufatti che presentano i fasti dell’antica presenza religiosa in Forlì, a ridosso della fossa di fusione delle campane e di antiche sepolture. Si tratta di ceramiche e corredi di tombe d’epoca medievale e rinascimentale, e pure reperti napoleonici e d’altre epoche. A suo tempo, i manufatti furono studiati da Chiara Guarneri e Romina Pirraglia della Soprintendenza, Flora Fiorini e Cristina Ambrosini dell’amministrazione di allora, con la collaborazione di Luciana Prati. Il “museo sotterraneo”, congelato nel tempo, è poi stato accantonato e forse le immagini incollate alle pareti sono già cadute, come tale potrebbe essere il destino delle vetrofanie del ballatoio. Ora, visto che si è ripreso in mano il progetto del “quarto lato”, si attende che anche questo veda finalmente la luce. 

Del resto, “il San Domenico”, com’è ormai chiamato, non è solo sede per mostre ma è dove fiorì l’opera di un tridente medievale particolarmente intrigante e di cui il Foro di Livio s’è già occupato: Giacomo Salomoni, Marcolino Amanni, Carino da Balsamo, uomini dalla vita straordinaria, coronata dalla beatitudine. Secondo una leggenda poco plausibile benché suggestiva, il luogo in cui sarebbe sorto il convento fu scelto personalmente da San Domenico nel 1218. Era un vasto appezzamento ai margini del quartiere San Valeriano, tra le case che conducono al Duomo e le mura che lambiscono il fiume. La chiesa fu dedicata fin dall’inizio all’apostolo Giacomo, figlio di Zebedeo. Valutando più prosaicamente la questione con le armi dello storico, pare che la fondazione sia da spostare qualche decennio più tardi.

Di quei tempi – destino comune a quel po’ di monumenti che la storia ha lasciato a Forlì – c’è ben poco: secoli e mode hanno mutato, ampliato e stravolto l’originaria struttura gotica, lasciando qua e là qualche traccia nascosta. La chiesa antica, a tre navate scandite da pilastri, era grande appena la metà di quella che si vede oggi. Alla fine del Quattrocento fu ampliata di oltre venti metri e divenne a navata unica con cappelle laterali. Fiorì il convento, dotato di una libreria a tre ambienti con 19 banchi per lato, elemento fondamentale per la promozione della cultura a Forlì. I vani dell’antica biblioteca oggi sono le sale principali destinate alle mostre temporanee. Il convento era dotato di un efficace sistema idrico che irrigava gli orti, aveva due dormitori e camere per ospiti e malati in due chiostri ariosi ed eleganti. I forlivesi tributavano stima ai padri predicatori, riconoscendone l’opera assistenziale e culturale oltre che la radicata assistenza spirituale. Il Comune, da par suo, si prodigava per favorire una così importante presenza anche perché coinvolgeva, attraverso il laicato del Terz’Ordine, numerosi forlivesi. 

Nel Settecento la chiesa fu ancora ingrandita, nella versione attuale misura 68 metri di lunghezza. Come tutti i luoghi vivi ha lasciato numerose tracce degne di essere viste e lette: ceramiche, vetri, oggetti per la mensa e per la cucina, medagliette devozionali, corredo di tombe e altro. Superate le soppressioni napoleoniche, il chiesone fu chiuso alla vigilia di Natale del 1866 in seguito alla così definita “eversione dell’asse ecclesiastico” dal giovane Stato italiano, per saldare i conti della terza guerra d’indipendenza incamerando beni e immobili religiosi.  La chiusura totale porta la data del 1° gennaio 1867, e ciò accadde nonostante “le reiterate istanze rivolte al Municipio dal Clero Forlivese” e da “molti cittadini”: quelle e “tutte le pratiche fatte affinché volesse tenerla aperta al pubblico” risultarono “infruttuose”. 


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