Una devota disciplina

A Natale ciascuno perdoni le offese ricevute! Questo e altro nella regola della Confraternita forlivese di San Girolamo

Il portico davanti all'antica chiesa di San Biagio in San Girolamo

Come altre volte qui s’è scritto, le vicende delle numerose confraternite che radunavano i forlivesi nella Forlì antica non sono state approfondite più di tanto. Si può provare a entrare nel clima di tale realtà dando qualche stralcio di un documento inedito del 1608. Si riferisce alla Congregazione di San Girolamo, afferente alla chiesa forlivese bombardata nel dicembre del 1944 e spianata successivamente salvando pochi manufatti preziosi. In realtà, la sede del sodalizio era più che altro la vicina San Giovanni Battista decollato, un tempo su via Silvio Pellico, un piccolo oratorio con sacrestia sul canale. Valgano questi virgolettati per ricostruire il molto che si è perduto, specialmente sulle regole, quell’insieme di codici per soli confratelli che probabilmente non doveva essere così dissimile nelle altre realtà omologhe. 

Se qualcuno della Confraternita si accostava alla porta, chi era all’interno doveva pronunciare ad alta voce: “Iesu” mentre chi si accingeva ad entrare avrebbe risposto “Maria”. Inoltre, “fatto l’asperges”, l’entrante doveva andare “al scabello dell’altare” e dire in ginocchio “cinque Pater et cinque Ave Maria” e poi “uno Pater et una Ave Maria per il primo che è venuto alla chiesa” in seguito “levatosi, dia la pace alli fratelli dicendo Pax vobis tacitamente inchinando il capo”. 

Nella notte di Natale “si vada alla chiesa” e qui si leggevano “cose devote” finché non “siano congregati li fratelli”, e poi, dopo aver detto “il matutino”, si proponeva “una devota disciplina, e ciascuno rimeta l’ingiurie l’un l’altro” fino al suono delle campane. Nel corso delle preghiere comunitarie occorreva levarsi “il capello o bereta”, gli artigiani confratelli non potevano entrare nell’oratorio “con il grambiale con quale essercita l’arte”. Se qualcuno avesse avuto necessità di uscire dalla chiesa, doveva inginocchiarsi davanti al priore aspettando un suo cenno. 

Il primo capitolo della regola trattava “delli vitii et peccati” e in particolare si definiva che “chi fosse bestemmiatore di Dio, o de’ Santi, usurario publico, o secreto, o adultero, o sudomito, o che s’inebriasse, o conversasse con cative persone, o praticasse in disonesto loco, o fosse partito di parte, o di setta, o fosse d’altra conditione diversa, o che non facesse arte lecita, et honesta, non possi essere della nostra Confraternita”. Da qui è chiaro che fosse requisito necessario osservare “li dieci comandamenti” e conoscere “li dodici articuli della fede” e avere “in osservanza le opere della misericordia spirituali et corporali”. Pertanto “sia obediente alla Santa Madre Chiesa”, compreso il rispetto del digiuno “la quaresima, le quattro tempora, et altre vigilie comandate”. Ogni confratello era tenuto a confessarsi “una volta ogni mese dal nostro padre spirituale” e alla comunione “quattro volte ogni anno”, in particolare per Pasqua, Pentecoste, Assunzione di Maria e nel giorno di Natale. Si chiedeva di digiunare “un dì della settimana” e “dire ogni giorno il miserere mei Deus”. 

Era poi richiesta la castità, da osservare “con somma diligentia” in modo da essere “uguali agl’angelli”: chi era sposato, “ami la sua moglie”. Punto di riferimento restava il padre spirituale, un “prete o frate di buona vita, e fama, e scientia”. Ogni tre mesi veniva eletto un priore che “amonischa et avisi con benignità li sonolenti a bene vivere”, che “esorti con amorevolezza li pigri al bene operare amaestrandoli”. Altra figura era il “sacristano” che “debba tenere li libri et robbe del altare, et ogni cosa della Confraternita per ordine”. Una parte piuttosto articolata è riservata all’ingresso dei novizi: mai al di sotto dei 18 anni e il cui nome, prima di essere proposto a tutti i confratelli, doveva essere vagliato dal priore. E comunque nessuno dei nuovi ingressi “habbia voce in capitulo”.  

Tra gli appuntamenti fissi dei confratelli vi era “dire li sette salmi penitentiali con litanie et orationi” alle 23 di sabato sera in chiesa e, come detto, rispettare le feste comandate. 

I confratelli, in ogni caso, dovevano dimostrarsi di poche parole: “Sempre si debba stare con silentio in chiesa non parlando con voce alta senza licentia del priore o di chi in suo luogo fosse, e quando il Priore dia licentia di parlare nisuno parli se non di cose pertinenti all’honore di Dio”. Giovedì Santo (“la giobia santa”) alle 23 al priore spettava “per carità lavare li piedi a tutti li fratelli”. A proposito di carità: se qualcuno dei confratelli si fosse trovato in infermità corporale o materiale, questi “debba essere aiutato nelli suoi bisogni”. 


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