L'asilo dei banditi

Il “supervescovo” Cesare Bartolelli e l'opera di contrasto ai malviventi della Forlì dei primi decenni del Seicento


Nel giorno di San Tommaso Apostolo (21 dicembre) del 1602, entrò a Forlì il suo nuovo Vescovo. Fin qui l'informazione non sembra di quelle eclatanti, però occorre accompagnarla a un nome: Cesare Bartolelli, umbro di Umbertide, successore di San Mercuriale di fresca nomina. Il cronista Sigismondo Marchesi ne racconta l'ingresso in città. Ne esalta la figura, descrivendo il prelato scelto da Clemente VIII per Forlì quale “epilogo di tutte le perfettioni”. Il predecessore, Corrado Tartarini, era morto nel febbraio di quel 1602 ma già aveva fatto le valigie dalla Cattedrale di Santa Croce l'anno prima, quando fu nominato nunzio apostolico in Savoia. Pertanto il ritorno di un Vescovo fu salutato con particolare trepidazione da parte dei liviensi.

In quel giorno a ridosso del Natale, il Vescovo novello “cavalcò sotto il baldacchino vestito Pontificalmente sopra una bianca chinea”. Per “chinea”, come si sarà intuito, s'intende “cavallo”, un cavallo particolarmente bardato e donato dal Re di Napoli al Papa, che andava “all'ambio”, cioè procedeva con un'andatura caratteristica ed elegante. Senza addentrarsi ulteriormente in divagazioni equine, basti dire che il prelato “fu applaudito da quindici putti in bianche vesti con varie belle compositioni”. In seguito “fu honorato di due orationi eleganti, una in lingua latina dal Capo de' Conservatori, ch'era il figliuolo d'Antonio Gradi, l'altra in lingua italiana dal Priore dei Novanta Pacifici, ch'era il dott. Assalonne Savorelli”. Dopo ciò “calò alla Cattedrale” davanti alla quale “secondo il solito fu tolta la chinea dall'Alfiere del Numero, che era il figliuolo di Girolamo Setti, e terminata tutta la funtione fu accompagnato al Vescovato a piedi non solo da' Canonici, e Magistrati, ma etiandio dalle militie”. Nonostante il clima di sfarzo e di festa, si udì un boato: “una moschettata con palla”! Ciò avrebbe causato “disturbo” al “buon Pastore” proprio mentre era “poco discosto dal palazzo Episcopale”. Marchesi spiegò che lo sparo fu causato da una “gara” invero piuttosto incauta “tra le militie della Città e del contado”. Non accadde nulla di grave: “da persone d'autorità fu prestamente posto rimedio ad ogni disordine”.

Il seguito è un fluire di lodi: il vescovo Cesare era dotato di “singulare prudenza” negli atti del suo governo, “rendendosi insieme da tutti amato e temuto” in modo che anche nel presente (qualche decennio dopo) del cronista “non sanno smenticarsi le memorie de' Cittadini delle rare sue qualità”. Il Pontefice pensò che fosse sprecato per Forlì se è vero che “lo spedì Nuncio Apostolico a Turino” dove “per ubbidienza passò” benché “pativa di star lontano dalla sua greggia”. Pertanto “di là procurò che il nostro Pubblico facesse istanza del suo ritorno, come seguì con suo non ordinario contento”. Morrà dunque a Forlì il 9 gennaio 1635.

Cartoline in bianco e nero fanno rimpiangere la vecchia chiesa di San Girolamo in San Biagio, la si ricorda non solo per le bellezze interne perdute per sempre, sostituite dal biancore algido proprio del tardo razionalismo anni Cinquanta, pure per il portico lungo e suggestivo che proteggeva le bancarelle durante la festa di Santa Caterina. Sul loggiato quattrocentesco, nei pressi dell'ingresso della chiesa, era ben vivida una curiosa iscrizione: “Questo porti/ co non gode/ più immunità / per decreto di / monsignor ill. / vescovo come de / legato apostolico”. Che cosa significa? A cosa si riferisce? Qui sta il nesso col vescovo Cesare Bartolelli. In tempi di consolidato Stato Pontificio, in Romagna un prelato svolgeva compiti prefettizi e veniva chiamato Legato. A quel tempo era il cardinale Domenico Rivarola. Questi però, specialmente tra il 1617 e il 1619, non seppe tenere a bada briganti e malviventi che ladroneggiavano a Forlì. Così la corte di Roma promosse a Legato proprio monsignor Bartolelli, in quanto ritenuto più capace di contrastare la malavita locale rispetto a Rivarola. Risoluto ad arginare questi spiacevoli fenomeni, il “supervescovo” Cesare come prima cosa tolse l'immunità al portico di San Girolamo. Qui, infatti, trovavano ricetto e asilo i malfattori: cioè, appunto “immunità”, nel senso che vi potevano vantare una speciale protezione giuridica ecclesiastica con buona pace della magistratura civile.

Il portico di San Girolamo pertanto, fino a quel momento era stato una singolare zona di extraterritorialità, dove la protezione garantita da Roma dei padri zoccolanti che abitavano in San Girolamo non poteva essere violata dalle forze dell'ordine né dalla magistratura. Non che fosse una cosa speciale, dal momento che monasteri e conventi davano asilo a chi era nei guai con la legge senza rendere conto al potere civile. Però in questo caso il Vescovo di allora intese bene di specificare con un'iscrizione in Italiano il cambio di rotta, volendo chiarire a chi avesse cattive abitudini che lì non avrebbe goduto di amnistia, giusto per ribadire che l'ignoranza non scusa. E fino a tempi recenti l'iscrizione era leggibile. Il progetto definitivo della nuova chiesa (edificio che nel 2023 ha compiuto settant'anni) non ha tenuto conto del recupero di questo scorcio di Forlì antico e caratteristico, scegliendo una sua riproposizione in tono minore davanti alla facciata. Così si è preferito adeguare il nuovo San Biagio ai gusti del dopoguerra, tempo più incline a risolvere problemi materiali che al sacro e al mantenimento della bellezza. Non tutto il portico era andato distrutto nel tragico errore del dicembre del 1944: Forlì non è Dresda pertanto la scelta non fu esattamente il “com'era, dov'era” a gran dispetto dei posteri, ne uscì una chiesa simile all'antica ma priva delle sue suggestioni. Alla fine degli anni Sessanta (tempi sciagurati per le non poche scelte che sfigurarono il centro storico) il tratto del portico antico rimasto indenne dalla guerra fu atterrato senza troppe rimostranze.


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