I disertori di Pievequinta

Esercito in mobilitazione tra Forlì e Ravenna nell'autunno del 1862. Nonostante lo spiegamento di forze, però, le cose andarono in modo inaspettato


Un fatto che sa di beffa, a meno che non sia stato voluto. Il dubbio che la Guardia Nazionale non avesse poi tutta questa smania di catturare i numerosi disertori che si nascondevano nelle campagne resta e sembra leggersi tra le righe dei documenti ufficiali. L'anno è il 1862, il Regno d'Italia portò la leva obbligatoria e, da queste parti, c'era chi non ne voleva sapere di mettersi a disposizione dei “piemontesi”. Il nuovo Stato non conosceva altra via che la voce grossa, un po' perché i romagnoli hanno sempre dato problemi, un po' perché in caso di morbidezza sarebbe subentrato un eccesso di lassismo. I Prefetti di Forlì e di Ravenna decisero di compiere rastrellamenti e perquisizioni nelle case dei sospettati che si concentravano al confine tra le due province, in modo che se si fosse verificata una fuga da una parte o dall'altra ci sarebbe stata un'opportuna collaborazione. 

Domenica 14 settembre, alle cinque, partivano da Forlì 70 uomini della Guardia Nazionale. L'intento – come detto – era una caccia all'uomo valida come monito: mai più renitenti, anzi, come dicono i protagonisti di questa vicenda, “refrattari”. La guida era il capitano comandante Antonio Chiarucci che, giunto a Carpinello, pensò di fare “un piccolo riposo”. In seguito, e sono sue parole: “ho messo in marcia nuovamente la mia colonna, dividendola in tre corpi”. Quello a sinistra era comandato dal luogotenente Monti, quello centrale dal Chiarucci stesso, quello di destra dal sottotenente Canestri. L'ordine era “di trovarsi tutti unitamente verso le otto al Castellaccio, come di fatti all'ora indicata ci siamo trovati”. Giunti in loco, Chiarucci chiese notizie a chi comandava gli altri due corpi.

Canestri riferì “di avere perquisito le case dei refrattari Angelo Garoja di Tommaso, e di Luigi Garoja di Giuseppe, situate poco distanti dalla parrocchia di Pieve Quinta”. Fu scelto di dividere in due il gruppo composto da 18 uomini: una parte del plotone con Canestri “perquisiva la casa di Angelo Garoja” ma “senza nessun risultato”, l'altra squadra, invece, comandata dal sergente Taparelli, “seguiva il refrattario Luigi Garoja” che evidentemente era stato scoperto. S'avvertì quindi uno sparo, come per dire: è qui! Però “non fu caso il poterlo fermarlo stante gl'ordini severi ricevuti da me di non dovere far fuoco sopra i fuggenti quando non gli avessero diretto contro le armi”. Canestri, preciserà che “uscito dall'aja” aveva visto il “refrattario medesimo” (Luigi Garoja) correre “in direzione opposta alla mia”. Fu inseguito da entrambe le squadre finché sbucò da un fosso “armato di schioppa” e continuò a correre mentre gli uomini di Canestri sparavano in aria per intimorirlo. La squadra giunse “a una casa, posta in un fondo della vedova Matteucci, di fianco alla quale casa trovavasi uno stradello fiancheggiato da due alte siepi” ma, complici tali arbusti “noi lo perdemmo di vista” e “dopo inutili ricerche fatte nelle siepi medesime, e dubitando che fosse potuto ricoverarsi in essa casa la feci circondare, e siccome era chiusa, intimai al garzone (il solo che si trovasse sul luogo oltre una fanciulletta di circa nove anni) di venirmi ad aprire la porta al che si prestò dietro minacce da me fattegli essendosi rifiutato”. Inutile fu la perquisizione che in effetti avvenne “perfino sui tetti”, infatti “nulla rinvenii”. Con le pive nel sacco, si diressero verso il Castellaccio. 

Nel frattempo, al corpo guidato dal luogotenente Monti non era accaduto niente di speciale, calma piatta. Chiarucci, invece, aveva condotto “una perquisizione in casa di Mariano Gavelli, colono del signor Marchese Albicini, della parrocchia della Rotta, padre di Pietro disertore del Regio Esercito”. Nemmeno di questo Pietro Gavelli vi fu traccia. 

Insomma, i 70 uomini di Chiarucci non catturarono nessuno e si trovarono tutti insieme al Castellaccio. Il comandante affermò che, messi i soldati in riposo, “sono rimasto in aspettativa per alquanto tempo dell'arrivo della colonna ravennate, siccome secondo i concerti presi, doveva congiungersi seco noi al detto posto”. Ecco, il rastrellamento, secondo i piani, sarebbe stato efficace se le guardie ravennati si fossero unite a quelle forlivesi, entrambe le Prefetture avevano lo stesso problema ma sembrava di cercare aghi nel pagliaio. Chiarucci mandò a San Pietro in Vincoli un suo ufficiale per dare la sveglia al plotone di Ravenna, evidentemente in ritardo, ma la risposta che ebbe dal comandante Rasponi fu: “che noi eravamo aspettati da loro in San Pietro in Vincoli” e che “non poteva essere stato che una male intesa di non esserci trovati assieme”. In seguito a tale incomprensione clamorosa, “presi partito di partire alla volta di Forlì, come fu fatto”. 

Nonostante la figuraccia, Chiarucci espresse la sua “sodisfazione per la buona volontà, ed energia degl'ufficiali, non che del buon volere, e subbordinazione di tutti i militi, e lo zelo dimostrato” tanto da tributar lode specialmente “al brigadiere Martini” e a tali Vallicelli e Liverani. 

Nessuno sembra rammaricarsi di ciò, a parte gli uffici del Governo che probabilmente ne sortirono con irritazioni e grattacapi. Il maggiore comandante Gnocchi, infatti, chiamato a fare una sintesi dei rapporti, parlò di un disguido tra telegrammi, ma il Regio Prefetto di Forlì parve rimanere dell'idea che il suo collega di Ravenna avesse torto. 

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