Il velo della beata Innocenza

Una giovane monaca forlivese e i suoi prodigi, la storia dimenticata di un’anima forte vissuta appena venticinque anni

Immagine di Maria Innocenza Orselli nei giardini Orselli



Alle 2 di notte del 20 novembre 1737, “serena tra tanti spasimi” morì una ragazza forlivese di venticinque anni, quattro mesi e quattordici giorni. Avvenente “in tutto il suo portamento” era di “ordinaria statura”, il suo volto appariva “piacevole e allegro” con “occhi più tosto vivaci” e “ciglia bionde”, “affilato il naso” pur essendo “alquanto segnata da morviglioni”, cioè da tracce di una malattia esantematica. Si tratta di Francesca Antonia Maria Orselli che, imitando una zia monaca, volle chiamarsi come lei: Maria Innocenza. Era nata lunedì 6 giugno 1712 dal conte Giovanni Orselli e dalla contessa Maria Teresa Folfi, essendo un’aristocratica liviense aveva parenti di chiara fama, come uno zio Vescovo, o un altro zio coppiere del Papa. Da giovane di buona famiglia aveva sicuramente molte possibilità, ma fin da subito rivelò la sua “anima forte”.

La storia della sua vita raccontata da Tommaso Belloni e dedicata a Benedetto XIV indugia spesso sul binomio purezza e bellezza che caratterizzarono tutta l’esistenza della giovane romagnola. Si narra che ancora bambina a casa sua, in quel palazzo Orselli al cui posto oggi ci sono gli omonimi Giardini, nell’approssimarsi del Natale era solita allestire un presepe sontuoso, cosa che attraeva le sue compagne di scuola che passavano ore a contemplarlo. Giocava col fratello a fare la monaca, stando dietro una grata e cedeva il proprio cibo a chi glielo avesse chiesto. Aveva infatti imparato a frequentare il monastero forlivese di Santa Caterina, sull’attuale via Romanello, dove s’intratteneva per ore, e lì, all’età di sette anni, fu mandata come educanda. Era il 30 giugno 1719: varcò la soglia di un luogo “che per l’osservanza è tra i più rigidi della Città”, affidata a due zie monache. La presenza della piccola attirò doni e regali ma con sé volle solo un’immagine di Sant’Antonio che in braccio teneva Gesù Bambino. Le testimonianze raccontano che diceva “con voce balbettante” per l’emozione di voler essere la sposa di Gesù Bambino e nel “letticciuolo” teneva una sua statuina. Una notte sobbalzò nel letto e non la trovò più, pianse a dirotto finché le zie non gliela ritrovarono. Ritrosa, umile, non fece pesare affatto la sua appartenenza a un casato importante, anzi, volle apparire come “tra le compagne l’abbietta” fino a farsi oltraggiare. Nel suo stile di vita, ancora bambina, c’era l’ascesi, la “somma astinenza”: fu però “questa in parte vera cagione dell’immatura morte”.

Terminato l’educandato uscì dal monastero ma ne sentì subito la mancanza, tanto che i genitori la condussero “a varj divoti pellegrinaggi”. La nostalgia la spingeva a ricordare la sua cella “ove rinchiusa – così diceva – voglio passarmela più allegramente”. Così tornò nel monastero di Santa Caterina come novizia nonostante una “furiosa tempesta di dubbiezze e timori”. Qui poi prenderà i voti ma la sua vita terrena fu molto breve, tanto che vi permase per otto anni. Divenne l’infermiera del monastero e si fece conoscere e voler bene per la sua testimonianza verso i più bisognosi, specialmente i malati “senza che mai la schifezza fosse valevole a nauseare la sua carità”. S’alzava più volte la notte “adoperandosi ne’ ministeri più fastidiosi” e li compiva con “amore, diligenza, attenzione”. Nel frattempo perpetuava la consuetudine di “privarsi ogni giorno della vivanda migliore che le veniva apprestata”. E lo faceva “per riservarlo in dono al diletto suo Sposo”: portava il pasto alla “Ruota in sollievo de’ poverelli”.

Pur essendo “affabilissima di tratto” si rivelava silenziosa, obbediente, mansueta, umile. Il suo temperamento forte la spingeva a penitenze estreme per la salute delle anime, conducendo un tenore di vita “assai aspro”. Per esempio si flagellava con stellette di ferro “per cui n’usciva in gran copia il sangue”, stretta al petto teneva una corazza con “cuori di legno” forniti di “punte acutissime”; ben presto si rivestì di un doloroso cilicio. Digiunava o mangiava frutta guasta, beveva acqua gelata d’inverno e calda d’estate, donava il suo cibo ai poveri. Uno stile di vita siffatto era già controcorrente nel godereccio Settecento, tanto che fu famosa anche per aver convertito diverse coetanee traviate, considerate “lo scandalo della Città”; un “giovinastro molto dissipato”, garzone di un fornaio, dopo una conversazione con lei divenne frate in San Girolamo.

Non mancarono difficoltà: “fu presa di mira e ischernita”, “trovò per ogni parte opposizioni, contrasti e montagne di difficoltà” e la sua permanenza in monastero fu un percorso “sparso di spine”, fino a essere sul punto di chiedere – senza ottenerlo – di essere trasferita in Santa Elisabetta, dalle Cappuccine, anche su consiglio di don Lucio Ferrari, suo padre spirituale. Nonostante ciò, continuava il servizio di infermiera e i forlivesi ne conoscevano le virtù. Nel novembre del 1737 fu colta da “influenza maligna” che nascose spacciandola per un semplice raffreddore onde continuare a prendersi cura di corpi e anime malati. Il 14 novembre, però, si mise a letto da cui non si sarebbe più alzata.

Alla sua morte si aprì la causa di beatificazione che però non andò oltre il titolo di “Serva di Dio”. Le deposizioni a favore della giovane monaca forlivese furono molteplici. Per esempio, suor Maria Antonia Mangelli si sentiva “afflitta nell’interno” e “restata sola in chiesa” si voltò “verso il luogo ove sta sepolta suor Maria Innocenza” e pregò. La notte “mi parve di essere come ammaestrata, e diretta, quasi assicurata”. La mattina successiva, accostatasi alla Comunione, si trovò “quieta e libera da tale afflizione”. La “servente Santa Farini” riportò invece che il 12 dicembre 1737, mentre era al lavoro “alla Cucina de’ nobili signori Fratelli Scanelli” scivolò “dall’impeto d’un cane percossa in un ginocchio”, ginocchio che già era malandato tanto che “si gonfiò ed infiammò” e sentì “acerbissimo dolore”. Fu portata a letto in braccio perché non riusciva a camminare. La signora Gioanna Scanelli la raccomandò nelle preghiere a Maria Innocenza, “una Monaca defonta pochi giorni avanti nel Monistero di Santa Catterina”. Ella, tra l’altro, della giovane forlivese conservava il cilicio e il velo (“sottogolo”). Insomma, “la mattina mi trovai affatto libera”, “restai molto ammirata, stupefatta in vedermi guarita”.

Suor Rosalba Mangelli, nell’atto di afferrare un libro, si fece male alla mano: il risultato fu “un’escrescenza della grossezza d’un’avellana” che trascurò per mesi. Il medico Antonio Cortina applicò sul gonfiore “una Chiarata” (albume d’uovo) con “alcune cose dentro, da me non conosciute”. Le cure non sortirono effetto, fin quando ricordò di avere una piccola parte di velo di Innocenza e la stese sulla “chiarata”. La mattina dopo, della ferita non c’era traccia. A suor Maria Pellegrina Albicini, invece, doleva lo stomaco e il dottor Mazzanti consigliò olio di mandorla: non ebbe giovamento, anzi “non riuscivo a parlare”, confidava. Il medico affermò che si trattava di un “male incurabile”. Ella dunque appoggiò sul ventre “una lettera scritta di proprio pugno da detta Suora Maria Innocenza”.

Dopo un paio di giorni tutto passò. L’anziano abate Bartolomeo Savorelli pativa una piaga nella gamba destra e anch’essa con “un pezzetto del di lei velo” si assorbì quasi all'istante. Suor Maria Teresa Brunaccini aveva il piede destro gonfio e non poteva genuflettersi, ricorse a Innocenza e, col suo velo, risolse il problema. Domenica Maria, una bambina figlia di tale Anna Cavina, soffriva un male chiamato “spina ventosa”, definito “quasi incurabile”. All’applicazione del velo di Innocenza, il medico constatò che era guarita. Altri ancora, come suor Maria Felice Orselli (zia di Innocenza) ebbe “nel braccio destro una flussione che accompagnata da un grave dolore non mi dava pace”. Teneva presso di sé una calzetta di lana della nipote e la stese sulla parte dolorante per constatare che la mattina successiva non aveva più “incomodo alcuno”. Maria figlia di Matteo Fagotti, moglie di Francesco Frattini aveva riscontrato seri problemi durante la gravidanza e, collocata una chiave di Maria Innocenza sul cuore, tutto si risolse e partorì un figlio maschio, fatto affermato pure da Antonia Merendi, pubblica levatrice in Forlì.

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