"Luci rosse" su Forlì

Dov’erano le “case chiuse” nella città di fine Ottocento? Ecco il ritratto di un mondo scomparso, tra meretrici e “malati celtici”

Uno sguardo notturno su via Felice Orsini

Il 16 aprile 1895 il Prefetto di Forlì si vide costretto a far fronte a una piaga che in provincia risultava dilagante: il “morbo celtico”. Con questo termine s’indicava il “mal francese”, cioè la sifilide. Pertanto incaricò Luigi Violani, “direttore del dispensario celtico” di visitare le prostitute della città e della provincia. Nel giro di pochi giorni, Violani rispose con un prospetto “dal quale risulta il numero delle prostitute visitate, le condizioni di salute delle medesime, non che le condizioni dei locali abitati”. Facendo un salto indietro è opportuno sottolineare che l’Ospedale di Forlì, amministrato allora dalla Congregazione di Carità, accoglieva già “malati celtici” ma fino al 1888 le “pubbliche meretrici” erano “inviate al sifilicomio di Rimini”. I sifilicomi furono soppressi e anche le prostitute entrarono in ospedale: ma a spese di chi? La Congregazione di Carità domandò al Governo se “fosse disposto a sostenere le spese di spedalità per le donne e concorrere nelle spese necessarie di una nuova sezione in questo civico ospedale”. Dal momento che da Roma le risposte tardavano a giungere, il Prefetto promosse una ricognizione che per noi posteri vale come ritratto di un mondo scomparso. 

Per quanto riguarda specificamente Forlì, la visita straordinaria venne effettuata il 19 aprile 1895, sotto esame passarono le seguenti donne: Rosina Fiumana, Elvira Cocchi, Cesira Arnaldi, Giulia Scagliarini, Egle Bendazzi, Filomena Spanò, Maria Prudenzi, Maria Conti, Elena Mariani, Domenica Mambelli, Maria Casadei, Virginia Fabbri, Luigia Cantalupi, Clelia Curiazi, Fanny Woit. Di queste, almeno due non erano del tutto sane ma non venne segnalato, almeno in tale circostanza, alcun focolaio di “morbo celtico”. Oltre alle citate indicazioni, venne verbalizzato che la maggior parte dei loro luoghi di lavoro, le cosiddette case chiuse, fossero situate in “via Muraglione Domenicane” (cioè via Felice Orsini) ai numeri 19, 21 e 23. Gli attuali proprietari non si sgomentino: non è sicuro che i numeri civici siano rimasti inalterati da allora. Altri due postriboli erano ai numeri 41 e 47 di via Palazzola, mentre altri ancora in via Fossi 6 e in via Bacilina 39. Queste ultime due, collocabili nel rione Schiavonia, risultano avere “locali sufficientemente puliti” e “bene areati” con camere “ammobigliate sufficientemente bene”.

Per quanto riguarda invece quelli del rione San Pietro, sembra andare molto peggio: in via Muraglione 19, il pianterreno era “umido, sporco, inabitabile” e nel primo piano le camere da letto erano “sporche”, con “mobilio sconquassato”, inoltre “le meretrici sono sprovviste di antisettici uso lavanda”. Poco più in là, in via Muraglione 21, al pianterreno risultano “locali indecenti”. Le camere da letto sono “sporche da molto tempo, non imbiancate” e anche qui “le meretrici sono sprovviste di antisettici uso lavanda”. In via Muraglione 23, nel pianterreno si vedono “locali angusti, male areati, sporchi” e salendo al primo piano si vedono “camere indecenti” senza areazione e anche qui gli antisettici sono sconosciuti. Al numero 41 di via Palazzola pare esserci soltanto il pianterreno con “locali indecenti”, “hanno la sola camera da letto sprovvista pure di antisettici”. In modo non dissimile, in via Palazzola 47, al pianterreno si vedono “locali umidi, angusti, poco areati, sporchi e sprovvisti di antisettici”. Il quartiere a luci rosse si estendeva prevalentemente a ridosso del vecchio convento delle domenicane perché l’antico complesso religioso era stato trasformato in distretto militare e caserma ricca di potenziali clienti. Non è da dimenticare, poi, che tutto il rione San Pietro beneficiava particolarmente della vicinanza della (vecchia) stazione, motore di commercio di ogni genere. 

Il 18 luglio 1895 il presidente della Congregazione di Carità raccomandava la “cura gratuita” alle “prostitute ambulatoriamente curabili” ma in ambulatorio (il “dispensario celtico”), appunto, non in Ospedale. Ciò avrebbe comportato un “beneficio a persone che per lo più non sono del paese, che hanno malattie acquisite per colpa o vizio” cioè le meretrici che avrebbero avuto più bisogno di un ambulatorio che di un nosocomio perché a quanto pare “non vogliono permanere nello stabilimento e sono insubordinate e turbolente” lasciando così letti e risorse a “persone povere, oneste, impotenti al lavoro”. Per il resto, dalla Congregazione di Carità giungeva la preghiera “a fare in guisa che le tenitrici di postriboli o le meretrici stesse paghino la diaria di spedalità, quante volte occorra, o in capo la paghi il Governo, se nell’interesse dell’igiene della sanità pubblica crede necessaria la segregazione di donne infette”. 

Pertanto venne effettuata una seconda ricognizione, il 21 luglio dello stesso anno, dal dottor Cicognani. Egli confermò più o meno quanto già descritto, aggiungendo qualche nome e particolari sui “locali di meretricio”. In particolare è annotato il nome della tenutaria, così in via Muraglione 21 era Egle Bendazzi (che lavorava con Angiolina Belloni), in via Muraglione 19 era Rosa Manzilli (che lavorava con Giulia Scagliarini, Luigia Borghetti, Zaira Girardi, Giulia Rivalta, Rosa Fiumana). Gestiva il postribolo di via Muraglione 23 Giulia Gondolini (con lei c’erano Antonia Ballardini, Maria Conti, Maria Ghetti, Maria Cavalieri). Per la casa chiusa di via Palazzola 47 è citato un nome: Plotti, che amministrava il lavoro di Virginia Fabbri e Domenica Mambelli. In “mura Lanzoni” (si presume che si tratti dei postriboli di Schiavonia), con Luigia Cantalupi c’erano Argia Belli, Crescenza Schweniger e Fanny Voigt. Che ne sarà stato di queste donne? Avranno ricevuto le cure di cui avevano bisogno? Per la documentazione raccolta, la loro storia finisce qui. 

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