Così nacque la Rocca

Ravaldino dal Trecento a oggi, dal Cardinale alla Tigre fino al primo prigioniero: molto più che capperi e carcere

All'interno della Rocca di Ravaldino

Nei giorni scorsi sono state annunciate notizie importanti riguardo ai lavori alla rocca di Ravaldino che, dopo un lungo periodo di quiescenza e di coltivazione di capperi, potrebbe tornare a essere un luogo fruibile a forlivesi e turisti come in una qualsiasi città normale. Si spera di non essere delusi come nel seguito del 2009, quando furono inaugurati i camminamenti visti solo per l’inaugurazione. Sono già passati tantissimi anni da allora, a Forlì i tempi sono sempre lunghi mentre soltanto l’edera sembrava essersi presa cura – a suo modo – dei mattoni antichi e carichi di storia. Ci sarebbe tanto da dire di quel luogo non luogo – né centro, né periferia – quasi avulso dalla città e sprofondato nel traffico o tra alberi con troppe fronde da nasconderlo, tuttavia è davvero difficile conoscere le sue origini. Da molti viene chiamata “rocca di Caterina Sforza” perché qui la Tigre di Forlì ebbe i momenti più accesi e significativi della sua vita e in effetti può dirsi il personaggio più rappresentativo. È anche vero però che fu solo l’ultima di illustri titolari che potrebbero risalire a un secolo e mezzo prima. 

Arduo quindi avere dati certi su un primo fortilizio che fin dalle origini della città era costruito sulla parte più alta di essa cioè appunto a ridosso della porta di Ravaldino. Nel 1838, Giovanni Casali nella sua “Guida per la Città di Forlì” scrisse nel consueto stile laconico che la rocca “serve oggidì ad uso di carcere” e fu fatta edificare dal cardinale Egidio Albornoz “dopo aver tolto nel 1359 Forlì all’Ordelaffo” per “incutere timore a’ cittadini”. Più avanti “Pino III la fece di nuovo risarcire e v’incominciò la cittadella che venne finita nel 1481 per ordine del Riario da Giorgio Fiorentino suo architetto”. Oggi come oggi si sa poco di più di tali scarne informazioni relative al fortilizio trecentesco. Nel 1893, nella “Guida di Forlì” di Egidio Calzini e Giuseppe Mazzatinti, si legge più diffusamente della “rocca di grande importanza storica”. Anche a quel tempo serviva “ad uso di carcere giudiziario” e si ammette: “non sappiamo quando fu costrutta, tanto più che il Marchesi la dice innalzata dall’Albornoz nel 1360 e poi da Pietro Bituricense, legato di Gregorio XV, nel 1370”. Reputa questa incerta paternità una “strana contradizione” e devia il discorso su più limpide informazioni: fu “rifatta” con Pino III (secondo Novacula i lavori iniziarono giovedì “die zobia” 14 giugno 1471 alle ore 14) mentre dieci anni dopo, con Girolamo Riario, venne iniziata la cittadella i cui lavori si protrassero fino all’ottobre del 1483. 

Tuttavia, almeno fino a Pino III Ordelaffi, la rocca di cui si parla non è quella cui siamo abituati ma è la cosiddetta “rocca vecchia”, anticamente detta Bonzanino. Era piccola, non a caso Giovanni di Mastro Pedrino c’informa che durante un assedio del 1423 venne difesa da appena quindici persone di cui tre “valente femene”. Purtroppo di queste donne non si è tramandato il nome ma par proprio che si sia trattato della famiglia del castellano, moglie e prole comprese. Della struttura si vedono tracce all’ingresso dei giardini del torrione da via Giovanni delle Bande Nere, ormai un cumulo informe di mattoni a suo tempo riciclato per edificare il Paradiso di Caterina Sforza e come miniera di laterizi per riparare le falle della rocca più recente. Che cosa significhi Bonzanino non si sa: che riecheggi il nome del conte Bonifacio che lo tenne a metà del secolo Dodicesimo? Che imiti una voce da dialetti settentrionali che vuol dire “campo di albicocchi”? La verità in tasca non ce l’ha nessuno ma pare che l’apparente diminutivo sia poi stato ripetuto in “Ravaldino” il cui corpo principale fu costruito poco distante. In effetti, il centro storico come lo conosciamo noi pare che sia stato disegnato da Francesco II Ordelaffi nella seconda metà del Trecento e, poco di seguito, dai cardinali Egidio Albornoz e Anglico di Grimoard, osando un’estrema espansione che in buona sostanza resiste fino a oggi. In tali anni venne dunque definito, più o meno dov’è ora, un luogo privilegiato per la difesa a monte della città. 

Sarebbe stato specialmente l’Albornoz a potenziare la futura rocca di Ravaldino ridimensionando quella di San Pietro (che, in buona parte delle sue forme, resistette fino al 1741 per poi sopravvivere ancora per circa un secolo soltanto come Porta) che si trovava alla fine dell’attuale corso Mazzini. Quindi a poco a poco si ritenne più opportuno difendere il fianco verso Firenze, avvezza a sconfinamenti anche grazie ai guelfi romagnoli stomacati dai ghibellini forlivesi. Così, in una sua forma assestata nella seconda metà del Quattrocento, Forlì si difendeva con le rocche di Ravaldino (meridione) e di San Pietro (settentrione) e con le due rocchette di Porta Cotogni (oriente) e di Sant’Eustachio (occidente: e con questo nome dimenticato si chiamava quella che cingeva – e ancora in parte si vede – la Porta di Schiavonia). Tuttavia quella vera e propria da allora venne considerata quella verso l’Appennino, e cioè, appunto, Ravaldino. In effetti uno degli obiettivi del  cardinale Albornoz (che sorprese i forlivesi riottosi con un’amministrazione efficace) era fortificare nel migliore modo possibile le città pontificie “a rischio”, specialmente quelle sul versante Adriatico. Tutto sommato riuscì nello scopo. 

Le vecchie guide cittadine (ma anche le contemporanee) insistono con l’associare la rocca con le carceri e a quanto pare tutto ciò ha un’origine antica. Un illustre prigioniero fu Astolfo Guiderocchi, nome che a queste latitudini non dirà nulla benché sia stato un personaggio di primo piano nelle Marche. Si trattava di un ghibellino che, con un proprio esercito, aveva preso il possesso di castelli nei pressi di Ascoli e la stessa città picena a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Non scelse la via diplomatica: uccise numerosi capifamiglia a lui ostili facendo più vittime della peste, tanto che il suo governo sarà letto come tirannia. Papa Giulio II, uomo tutto d’un pezzo, lo fece incarcerare e per lui scelse proprio la rocca di Ravaldino. Forlì, ormai sedata dallo Stato Pontificio, iniziò così a usare la sua rocca avviata a una lenta obsolescenza riconvertendola come prigione non solo locale. 

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