Marcolino e l'eredità contesa

Una ricca coppia, un ingente patrimonio amministrato dal figlio, il convento forlivese di San Domenico, l’avvocato Oreste Regnoli. Chi avrà ragione?

L'avvocato Oreste Regnoli e il convento forlivese di San Domenico 

Ecco una vicenda che durò un secolo, seguendo le mutevoli vicende storiche che segnarono il trapasso dall’età moderna a quella contemporanea. Nella prima metà del Settecento, da Tommaso Cicognani e Maria Ronconi, originari di Brisighella, erano nati Giovanni e Maria Maddalena. Con gran dispiacere della madre, Giovanni aveva scelto di diventare frate predicatore presso il convento di San Domenico di Forlì. La sorella, invece, aveva sposato un tale Manucci con cui aveva avuto dei figli. Il vecchio Tommaso morì e si pose il problema di come amministrare il patrimonio: Giovanni ormai si faceva chiamare Marcolino e, come religioso, non poteva avere cose sue, quindi tutto passò alla figlia, anzi, al Manucci che ben presto si rivelò un incapace, un prodigo, uno spendaccione. 

La situazione stava andando fuori controllo: la famiglia opulenta era quasi sul lastrico pertanto Marcolino, sorella e l’anziana madre “stimarono di dover avvisare a’ rimedi” com’ebbe a dire il celebre avvocato forlivese Oreste Regnoli. Sì, perché questa vicenda finì in tribunale quasi cent’anni dopo. Nell’estate del 1770, Marcolino chiedette al priore Savorelli “di potere accettare un mandato generale dalla madre tanto come proprietaria quanto come usufruttuaria de’ beni di famiglia” per “amministrare in di lei nome, vendere, permutare e fare qualunque altro contratto sopra i detti beni, stare in giudizio e far quant’altro la medesima istituente avrebbe potuto fare”. 

Nonostante quest’accorgimento, però, “non era possibile né impedire né migliorare il deteriorare di quelle sostanze”: che sciagurato, quel cognato, lui e la sua “poco ordinata gestione”! L’amministratore Marcolino, dunque, giunse a una conclusione che fece assai felice l’anziana genitrice: l’11 aprile 1798 ottenne dal Vescovo la secolarizzazione. Avrebbe continuato a rispettare i voti ma non più nella condizione di frate, e questo perché si era rivelata “necessaria la sua opera per salvare dal deperimento d’ogni loro avere la vecchia madre e i nipoti, i quali senza la sua assistenza sarebbero per mendicare”. Lasciò dunque il convento e tornò a vivere dalla mamma. La procedura fu facilitata dal fatto che era arrivato Napoleone e molti monasteri a via a via erano stati soppressi ma ciò bastò a rallegrare “in quell’ultima ora” la “buona e savia madre” che ben presto avrebbe concluso “la sua modesta esistenza”. Ella aveva dettato il testamento nel 1787 e le sue volontà erano chiare: la figlia Maria Maddalena era destinata a essere erede universale, se le fosse premorta tutto sarebbe stato dato ai nipoti maschi. Era stato designato come amministratore, appunto, il buon Marcolino con i poteri di “migliorare il patrimonio” ma “con obbligo di restituirlo o consegnarlo dopo la morte per quanto fosse accresciuto” alla sorella o ai nipoti. La signora Ronconi, decisamente avveduta, per evitare equivoci lasciò scritto che sui beni amministrati dal figlio il Convento e l’Ordine dei Domenicani non avrebbero dovuto mettere becco, cioè chiese l’esplicita esclusione “sempre e in ogni caso” della “Religione di San Domenico”. 

Marcolino accettò l’eredità e le volontà materne, ebbe libera gestione di “fondi immobili ed altri capitali”. La storia, però, aveva mutato il suo corso e l’ex frate ormai cittadino ottenne da papa Pio VI di potere “in morte gratificare i parenti ed altre persone” con la “facoltà di fare testamento” limitatamente alle “cose acquistate dopo l’indulto di secolarizzazione”. L’amministratore, negli anni successivi, seppur quasi analfabeta riuscì a far miracoli (finanziari) e si rivelò un ottimo e capacissimo gerente. Complici anche le “improvvise fortune” che quegli anni corrisposero alle soppressioni delle corporazioni religiose, fatto che fece entrare nelle tasche di parecchi forlivesi una miniera d’oro. Non si montò la testa, e dispose per testamento che le sue fortune sarebbero andate ai nipoti. Poi però la storia cambiò ancora: il 1815, il Congresso di Vienna, il ritorno dello Stato Pontificio. Tornarono quindi in auge i domenicani e il convento forlivese riebbe modo di essere tale. 

Sembra però (ma questa è la visione di una parte), vi sia stata una vera e propria circonvenzione dell’ormai ottantenne Marcolino da parte dei suoi vecchi confratelli. L’11 febbraio 1818 fu infatti invitato a sottoscrivere una scrittura privata con cui si obbligava a “riassumere l’abito religioso e a cedere la proprietà dei suoi beni al Convento di San Giacomo maggiore, detto di San Domenico di Forlì, a titolo di disposizione per celebrazione di messe”. Per sé, Marcolino avrebbe goduto dell’usufrutto e, in caso di ulteriore soppressione del convento, tutto sarebbe andato all’Ospedale. 

A questo punto i nipoti Andrea, Domenico e Agostino Manucci, ormai grandicelli rischiavano di rimanere senza un soldo, tanto che venne aggiunto che essi avrebbero dovuto “rinunciare ad ogni diritto, azione, pretesa ragione sulla eredità fiduciaria della loro ava Teresa Ronconi”. I nipoti, ignari di tale compromesso, caddero dalle nuvole. Il 18 dicembre 1821 morì Marcolino, cioè Giovanni Cicognani “e tosto i Domenicani andavano in possesso del pingue patrimonio”. I suoi nipoti morirono qualche anno dopo, lasciando figli minori senza grosse prospettive di ricchezza. I pronipoti Giovanni (nato nel 1821), Luigi (nato nel 1823) e Giuseppe (1825) crebbero finché non conobbero questa storia: il 7 febbraio 1865 citarono in tribunale il priore Cassini del convento forlivese difesi dall’avvocato Oreste Regnoli. In effetti, azzardando una conversione tra scudi pontifici, lire del 1865 e valuta attuale, la cifra in ballo superava gli 800 mila euro grazie ai frutti della gestione del bravo amministratore. I domenicani erano convinti di cavarsela con l’usucapione ma mancava la buona fede, né fu ritenuto argomento sufficiente il fatto che i beni di chi entra in monastero sono del monastero (in effetti Marcolino non ne era proprietario). Ebbe pertanto ragione l’avvocato Regnoli, ragione favorita sicuramente dallo spirito del tempo: di lì a un paio d’anni il convento forlivese di San Domenico sarebbe stato definitivamente soppresso. 

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