Cignani morto di caldo?

Forlì è una delle città più roventi d’Italia. L’estate del 1719 a quanto pare uccise una decina di persone

Forlì d’estate ama registrare temperature elevatissime, regalandosi primati nazionali come i 43 gradi del 4 agosto 2017. Se però si salta indietro nella storia, proiettandosi trecento anni prima, si scopre una testimonianza scritta nel settembre del 1719. Il manoscritto, conservato all’Archivio di Stato presso il Fondo Dall’Aste Brandolini, così inizia: “Tutta questa estate passata, fino à 15 d’Agosto, si fece sentire un caldo eccessivo, che superò quello dell’anno antecedente”. Per tradurre l’aggettivo “eccessivo” si usa una scala termometrica. Si evince dunque che nel 1718 si registrarono “gradi 26” mentre “quest’anno à gradi 27”, misurati da “un Termometro”. Non si traggano conclusioni affrettate, in quanto le scale che oggi si usano per misurare la temperatura non erano ancora state inventate. Non sono dunque gradi centrigradi secondo la scala Celsius (°C), né di altre che si applicano attualmente nel mondo. 

Qui occorre l’intervento di un esperto del settore, in quanto a quel tempo pare che ci fossero scale piuttosto approssimative, a parte quella proposta da un astronomo danese nel 1701: zero “gradi Roemer” corrisponderebbero al punto di congelamento della salamoia mentre l’ebollizione dell’acqua è segnata a 60 gradi. Fatta la debita proporzione, se questo fosse il parametro indicato nel manoscritto forlivese, 27 gradi Roemer si tradurrebbero in 51 gradi Celsius. Un po’ troppi. Di poco posteriore fu la scala, oggi usata quasi esclusivamente nella produzione del Parmigiano Reggiano, detta “scala Reaumur”, dove 27 gradi corrispondono a 34 gradi Celsius. Ma, appunto, fu introdotta qualche anno dopo la stesura del manoscritto e prevalente soprattutto nell’Ottocento. 

Ora come ora, dunque, si rimanda a chi ne sa. Dunque si può continuare a leggere l’interessante testimonianza dove si precisa che le misurazioni citate aumentano “un grado di più quando si tratta di caldi estremi”. E l’estate del 1719 fu davvero terribile: “il caldo ha cagionato infirmità gravissime e mortali, che hora si fanno sentire nel mese di Settembre, essendo in una sol mattina esposti dieci o undici cadaveri in varie chiese da seppellirsi”. Il compilatore del manoscritto informa che tra queste salme c’era quella del “famoso Sig. Cav. Carlo Cignani, bolognese insigne pittore di questo secolo e quasi unico nella sua professione”. Il grande artista, infatti, morì a Forlì l’8 settembre di quel 1719. Di caldo? Sicuramente era molto anziano. Il cronista lo racconta dal punto di vista morale, ricordando che “le doti dell’animo” non furono “punto inferiori alla sua vera virtù”, infatti era “di una bontà singolare, con tutti affabile, e di una umiltà non ordinaria”.

Non era “mai stato predominato né dalla superbia né dall’invidia” caratteristiche che di solito spiccano nei “virtuosi di questa sorta”. Anzi, “tutti lodava, anche quando non vi era il merito della lode” e “da tutti, ed in particolare da suoi scolari, facevasi teneramente amare”. Fu inoltre lontano “dall’avidità del denaro”: “in tant’anni che visse, dipingendo non accumulò quanto havrebbe fatto un altro suo pari in pochissimo”. Non si riferisce nel dettaglio se e in che misura sarebbe intervenuto il caldo nell’accelerare il trapasso, in quanto l’artista – considerato tra i più importanti del periodo - morì “di pura vecchiaia di anni 93, doppo esserne vissuti la maggior parte in Forlì”, città che di lui vanta “bellissime pitture” (tra cui l’Aurora di palazzo Albicini), specialmente la “famosa cuppola dedicata alla Beata Vergine del Fuoco in Duomo, che sarà sempre un vivo testimonio della virtù di questo insigne pittore”. Si consiglia a chi legge di andare in Duomo e alzare lo sguardo verso l’apice della predetta cupola, se opportunamente illuminata. 

Il cronista senza nome riporta inoltre che “nel passato mese di Agosto” morirono poi “molte Signore”, tra le quali “la Signora Avezzani, e la Maldenti, ambedue di parto, la Signora Biondi, Signora Galeppini, e la Signora Colombani d’altro male proprio della stagione”. Erano tutte “in buon essere e di prospera gioventù”. Come se non bastasse, in quell’estate caldissima si diffuse “un male epidemico di Iterizia” che “apena lasciò intatta persona alcuna, tanto nella nostra, che nelle circonvicine città, senza però infierire mortalità alcuna”. 

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