Chi diede il nome a Forlì?

La potremmo chiamare Figline, la potremmo chiamare Forlivio: invece nel Trecento venne preferita una strana forma con l’accento (o con l’apostrofo)


La scuola si avvicina e il primo fatto che la caratterizza, a simbolo proprio di una chiamata alla realtà, alla crescita, all’impegno, alla responsabilità, è l’appello. Alla lettera “F” si arriva a Forlì. I più accorti sanno dedurne la radice romana da Forum di un tale che si chiamava Livio, Salinatore o chiunque altri fosse. Non si tratta, qui, di indagare su quale oscuro Livio abbia eternato il suo passaggio da queste parti diventandone toponimo. Piuttosto l’interrogativo è: quando e chi coniò questo nome tronco, caso unico per una città che si avvicina ai 120 mila abitanti?  Per esempio, la vicina Imola era la romana “Forum Cornelii”. Il tempo non l’ha resa “Forcò” preferendo altre strade. Anche per Forlì, nei secoli, il nome cittadino è stato presentato in più forme per poi cristallizzarsi nell’attuale, versione che termina con un accento di troncamento o con un apostrofo d’elisione secondo ipotesi discordanti. Cosa che nell’era della scrittura digitale fa impazzire le macchine in modo che il nome Forlì spesso, in questo secolo, sfumi in forme altrettanto eccentriche. 

Se si prende a riferimento il corposo materiale che si riassume col nome “Libro Biscia”, una raccolta di atti prevalentemente giuridici dell’abbazia di San Mercuriale, Forlì è indicata come “Figline qui vocatur Livia” in documenti datati 1092, 1114, e del 1116, poi pare scomparire questo nome derivante dall’attività dei vasai (i “figularii”). Qualcuno decise che Forlì non si sarebbe chiamata Figline, dizione che a poco a poco prese a descrivere soltanto un quartiere per poi disperdersi del tutto. Spesso la si appellava Livia, un nome bello e poetico, sicuramente di moda ai tempi di Augusto (sua moglie si chiamava così). Indicava propriamente una parte di città oltre il Montone, sorta sui residui di un vecchio Castrum: il nome rimase affermato, in senso estensivo, solo tra i poeti. Così, in modo forbito, i forlivesi si possono definire “liviensi”. Nel Duecento, l’uso anche comune di “Forum Livii” o “Forum Livi” si contrasse in “Forlivium”. Da quando la lingua volgare iniziò a nobilitarsi, il toponimo da queste parti venne ricalcato in Forlivio, Forlivo, Forlivi. Queste versioni risultano diffusissime almeno fino a tutto il Medioevo, pure oltre, e la prova è data dal fatto che gli abitanti della città accentata si chiamano “Forlivesi”, non “Forlesi”, con la “v” che, come fossile urlante, reclama la sua origine. 

Insomma, per arrivare subito alla risposta del quesito di cui sopra, basti dire che si può dare un nome e un cognome all’inventore di “Forlì”: è Dante Alighieri. Quando scrisse la Commedia, un forlivese avrebbe detto “Forlivio” ma Dante, forse per esigenze metriche, bagnò in Arno una dizione popolare (“Furlì”) da cui poi deriverà il dialetto Furlè. La resa fiorentina di Furlì è Forlì, con tanto di suggestione di matrimonio tra latino e vernacolo in terra toscana. Un paio di secoli più tardi la dizione si sarebbe cristallizzata in modo definitivo. Si può desumere pertanto che sia un toponimo nato nel Trecento. Il Sommo Poeta non si era limitato a definire la città come “la terra che fè già la lunga prova…” riferendosi al Calendimaggio del 1282, ma più esplicitamente, in altre terzine dell’Inferno, scrisse:  “Come quel fiume c’ha proprio cammino / prima dal Monte Viso ‘nver’ levante, / da la sinistra costa d’Appennino, / che si chiama Acquacheta suso, avante / che si divalli giù nel basso letto, / e a Forlì di quel nome è vacante”. Si trattava di fiumi, e Dante volle precisare che in città il torrente Acquacheta cambia nome (in Montone). E si può azzardare che in tale contesto venne coniato il nome della città di Livio, preferendo le acque dell’Arno a quelle del Montone. Confermerà questa scelta anche nel Purgatorio, quando, riferendosi a un esponente degli Orgogliosi noto per le sue smodatezze, scrisse: "Vidi messer Marchese, ch'ebbe spazio / già di bere a Forlì con men secchezza, / e sì fu tal, che non si sentì sazio". 

Così il toponimo venne adottato dal cronista Giovanni di Mastro Pedrino (1390-1465) che userà, appunto, la dizione “Forlì”. Leone Cobelli (1425-1500) si concederà ancora molto spesso “Forlivio” mentre Andrea Bernardi detto Novacula (1450-1522) preferirà “Forlì”, forma che con Sebastiano Menzocchi (1535-1600) potrà dirsi definitivamente assestata: gli storici posteriori non sarebbero più tornati indietro.  Non sembra dunque fantasia affermare che fu Dante a battezzare Forlì. Il capoluogo romagnolo meriterebbe pertanto un segno chiaro e permanente a ricordo della presenza determinante dell’Alighieri sotto San Mercuriale, cosa che località vicine già fanno – per esempio - con treni o sentieri non proprio filologici. La città che per prima accolse il celebre esiliato potrebbe fare molto di più. 

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