Babau nella vecchia Forlì

Episodi di vita spicciola della lunga storia della Confraternita delle Stimmate, gli incappucciati che fino al 1802 giravano attorno a San Biagio


Il mondo delle confraternite forlivesi dei tempi che furono merita sicuramente approfondimenti. La cesura anche qui, come per moltissime altre realtà associative e solidali della città, è data dall’arrivo di Napoleone che in pochi anni spazzò via secoli di consuetudini, luoghi, comunità, tradizioni. Si trattava di sodalizi di vario genere, laici ma incardinati nel tessuto cattolico e con una devozione ben esplicitata nello statuto. Alcune erano eredi dei “Battuti”, altre erano più o meno corporazioni di arti, altre ancora si occupavano della cura di una chiesa, di una parrocchia, di servizi legati al culto. 

Sono giorni estivi, quindi non s’intende trattare l’argomento con completezza né pedanteria. Si potrebbe provare, invece, a scoprire qualche episodio curioso per toccare con mano la vitalità di tali associazioni che, essendo composte da uomini, non erano preservate da bisticci e litigi. Piccole cose, incomprensioni, la difficile gestione dei ruoli e dei rapporti di vicinanza: più o meno una lettura da ombrellone. 

“La Confraternita delle Sacre Stimmate di San Giovanni Battista Decollato detto Santa Marta del Canale eretta nella chiesa di San Girolamo di Forlì” ha un nome lunghissimo: i forlivesi, quando li vedevano, li chiamavano semplicemente “babau”, perché andavano in giro incappucciati, in sandali e con un saio bigio addosso. Gestivano una chiesa scomparsa, un piccolo luogo di culto situato all’angolo tra le vie Silvio Pellico (storicamente chiamata “via Sant’Antonio”) e via Molino Ripa, anticamente appartenuta al monastero della Ripa. Questa chiesa, il cui nome varia nella storia da San Giovanni Battista a Santa Marta del Canale, era tenuta aperta dai “babau” che fornivano pure il servizio di sacrestano e curavano l’orto adiacente. Chiusa la congregazione, nei primi anni dell’Ottocento scomparve anche la chiesa. I componenti di questa confraternita appartenevano a famiglie dal cognome importante, per esempio Simone Aleotti (priore), Francesco Savorelli, Cristoforo Numai, Nicolò Morattini, Alessandro Ubaldini, Paolo Solombrini. Documenti su questa realtà associativa che ebbe vita tra il 1510 e il 1802 sono conservati all’Archivio di Stato. 

Il “Capitolo nono” dello statuto indica il “fare il sacristano”. Così si legge: “Ordiniamo che sia elletto uno fratello della Confraternita nostra per Sacristano quale si debba elegere in questo modo. Si descrivano tutti li fratelli, et si faciano li boletini, et ogni tre mesi, se ne cavi uno a sorte sin tanto ve ne sarano, et quando sarano finiti di cavare tutti, di novo si faccia il medemo, e il suo ufficio debba durare tre mesi, nel qual tempo detto sacristano debba tenere li libri, et robbe del altare et ogni cosa della Confraternita per ordine, et finito il suo ufficio debba rendere ogni cosa per ordine al ufficiato novo sotto pena di privatione a chi contrafarà”. Ebbene, si capisce che il sacrestano veniva estratto a sorte e l’incarico durava tre mesi. A quanto pare, non era un servizio molto gradito. 

Infatti, il 26 giugno 1611 venne convocato un capitolo in seguito ad alcune ripetute rinunce all’estrazione del detto ruolo. Si precisò che “quelli che non vogliono o non possono essercitare la sacrestia” erano tenuti a pagare “la papalina” (una penale, si suppone) perché la compagnia non era certo propensa a “voler scandali” né “qualche inconveniente” e, anzi, desiderava tutelare “ogni honore e dignità”. Non tutti però potevano permettersi questo pagamento oppure altri avevano davvero un motivo valido per disertare la sacrestia. Per esempio “vecchiezza, infermità o povertà”, in tal caso l’inadempiente avrebbe dovuto “con humiltà esporre alla Confraternita tali bisogni et impedimenti” mentre spettava alla Compagnia stabilire se si fosse trattato di ragioni valide e caso per caso avrebbe deliberato una “determinatione”. Ognuno era tenuto ad accettare con “obedientia” la “pena”, altrimenti “si dimetta”. 

Il 6 ottobre 1613 venne riferito al Priore che Girolamo Bedollini “mentre per i tre mesi pattuiti era sagrestano” ebbe uno scatto di rabbia: forse davvero la sacrestia scaldava gli animi? Intanto si dica che i Bedollini erano un’antica famiglia patrizia con esponenti di rilievo specialmente nel Quattrocento. Avevano un sepolcro gentilizio nella cappella dedicata a Santo Stefano dell’antica chiesa di San Biagio ove si poteva leggere tale iscrizione per terra: “Hic Stirps Bedolina Iacet MDII”. Insomma, il sacrestano aveva notato che sul “rastello” (lo steccato) dell’orto era stata appesa una “tavoletta”. Su essa erano state scritte “quelle cose che si dovea osservare da fratelli circa ai frutti del horto”. Bedollini, profondamente irritato, chiamò i compagni e la spezzò in modo plateale, prorompendo “in parole orgogliose” in “dispreggio di chi havesse attaccata quella tavoletta, e con qual ordine fosse stata attaccata”. 

I confratelli, scossi dalla collera del sacrestano, gli chiesero di darsi una calmata e proposero “che in un giorno di festa debba andare all’Altare” per chiedere con “humiltà” la “perdonanza”. Come poteva non sapere che la Confraternita aveva scelto di nominare un ortolano nella persona di Sebastiano Locatelli? Il sacrestano aveva avuto la percezione che la sua autorità fosse stata calpestata? L’orto era di competenza della sacrestia? La Congregazione, infatti, forse all’insaputa del sacrestano aveva poco tempo prima deliberato “che si dovesse far un hortolano e quel fosse il padrone del horto”. Non sapeva, o era stato distratto: almeno lui si scusò così. E aggiunse che “non haveva rotto la tavoletta in dispreggio della Compagnia, ma perché non sapeva chi avesse dato l’ordine di metterla”. 

Chissà se il Bedollini abbia fatto valere il suo blasone, fatto sta che i babau decisero che l’ortolano “è stato negligente ad attaccare la tavoletta” e non solo non l’ha detto al sacrestano ma l’avrebbe “attaccata per dispetto del Bedollini”. Insomma, alla fine la responsabilità ricadde sull’incauto (e provocatore) Locatelli. 

Il clima non doveva essere dei migliori se nella medesima seduta era all’ordine del giorno un altro fatto simile: “Pier Martire Minganti havea ingiuriato Paulo Camillo Romanelli con parole ingiuriose” affermando che usava le cose della Compagnia “secondo il suo capriccio”. Pertanto, per difendere le sue ragioni, alzò “il bastone che del continuo porta seco” e scoppiò un violento battibecco: “sarìano venuti ai fatti” quei due se qualcuno non avesse provveduto a separarli. I babau riterranno responsabile Paulo Camillo che dovrà “andar all’Altare et ivi ingenocchiato domandar perdonanza dello detto scandalo”. 

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