Forlì e il capitano nero

Il campione dei guelfi: Fulcieri da Calboli. Il suo ruolo nella vita di Dante e i tentativi di spodestare gli Ordelaffi


Sarebbe opportuno che a Forlì ci fosse qualcosa di tangibile, di permanente, per ricordare ai forlivesi o a chi vi si avventurasse che si tratta di una città dantesca. Dei tanti fatti, dei tanti aneddoti e delle innumerevoli citazioni, qui si tratteggia la vicenda di un uomo che (forse) ha determinato, certo indirettamente, la stesura della Commedia. Nei primi mesi del 1303 la sorte di Dante era nelle mani di due forlivesi: sarebbe tornato a Firenze o avrebbe finito i suoi giorni in esilio? Certo, la speranza era pur sempre il rientro in patria, ma si sa, questioni politiche, lui guelfo bianco non poteva rientrare nella città dei guelfi neri. La differenza tra le due fazioni accomunate dal sostegno al Papa era tutta locale: i bianchi risultavano aperti alle forze popolari e a una maggiore autonomia da Roma mentre i neri rappresentavano per lo più gli interessi delle famiglie più ricche per poi sostenere il pieno controllo della corte pontificia sulle terre toscane. 

Nel tentare il rientro a Firenze, il Poeta vantava il sostegno di Scarpetta Ordelaffi, capitano dei ghibellini facente funzione di Signore di Forlì. Per un certo periodo ne fu il segretario contribuendo così all’ascesa inarrestabile della già potente stirpe. Tuttavia l’ostacolo principale per il ritorno sull’Arno aveva un nome e un cognome: Fulcieri da Calboli, podestà di Firenze, tanto guelfo quanto nemico di Scarpetta ancor più perché suo concittadino. Da una parte, dunque, gli Ordelaffi, cioè i ghibellini, la stirpe del leone verde e dall’altra i Calboli, cioè i guelfi (neri), la casata della rosa d’argento. Durante detto Dante si trovò così in mezzo al guado: i guelfi neri lo detestavano molto più che i ghibellini e questi, alleati coi guelfi bianchi, tentarono l’assalto al capoluogo toscano. Il teatro dello scontro fu il Mugello, nei pressi della chiesa di Santa Maria in Pulicciano, ove c’era un castello fatto erigere da Matilde di Canossa. La battaglia, asperrima, avvenne il 12 marzo 1303.

Da un lato stavano i ghibellini e i guelfi bianchi, dall’altro i guelfi neri e a capo di entrambi gli schieramenti un campione forlivese. Scarpetta Ordelaffi, leone rampante ambizioso, astuto e vincente, e Fulcieri da Calboli, un mastino, descritto come ferocissimo e crudele. I due, di sangue romagnolo, non si potevano vedere. Quella volta, su campo toscano, la spuntò Fulcieri, lo si dichiara subito senza troppi giri di parole: la vittoria fu schiacciante. I suoi catturarono oltre cinquecento avversari che, oltre alla sconfitta, subirono torture e condanne a morte, di sicuro saltarono dieci teste. 

Scarpetta e altri, invece, riuscirono a rifugiarsi nel vicino castello di Montaccianico donde avevano sferrato l’attacco. Non si sa se Dante abbia impugnato un’arma ma assisté alla cocente sconfitta. Come si può prevedere, non dimenticherà di stroncare Fulcieri nella sua Commedia, parlandone al di lui zio nel Purgatorio quale sanguinario cacciatore che “vende la carne loro essendo viva / poscia li ancide come antica belva”, insomma “molti di vita e sé di pregio priva”. La vittoria di Fulcieri fu importantissima e consentì di affermare o confermare il suo potere. Dante, invece, preferirà rassegnarsi a vivere lontano da Firenze; sarebbe tornato a Forlì, come si suol dire, con le pive nel sacco. Nei mesi successivi iniziò a scrivere la sua opera più famosa, quella Commedia che per molti è divina.

Fulcieri o Fulceri, omonimo del consanguineo eroe della Grande Guerra, si era distinto nell’agosto del 1294, giorno di San Bartolomeo, quando fu tra i protagonisti di uno scontro tutto liviense con gli Ordelaffi. Venne imprigionato, venne liberato ma per lui iniziò l’esilio da Forlì. Tutto sommato, gli andò bene così perché seppe affermarsi a Parma, a Milano e nel 1299 era Capitano del popolo a Bologna. Dal gennaio 1303 fu podestà di Firenze, seguirono vere e proprie persecuzioni contro i guelfi bianchi, in particolare il suo livore si riversò contro la famiglia Abati, decimata perché creduta traditrice. Nel corso della sua intensa carriera politica le cronache del tempo sono concordi nel descriverlo come inflessibile e intransigente. Nel 1305 era podestà a Modena dove proseguì nella sua cifra di politico sanguinario capace di trascinarsi dietro odi e vendette. Ebbe altri incarichi civili e di guerra tra la Toscana, l’Emilia e la Romagna almeno fino agli anni Venti del Trecento: per quei tempi si tratta di una vita e di un successo assai duraturi. 

Nel 1310 era a Forlì dove trovò un punto d’incontro con i ghibellini nell’avversare Gilberto di Santiglia, il catalano che governava la Romagna per conto del Papa e degli Angioini. La curiosa alleanza fu questione di poco, a breve si sarebbe capito che le chiavi della città erano ormai affare dei soli Ordelaffi. In effetti, conclusa la breve fortuna degli Orgogliosi, nel 1315 Cecco Ordelaffi espulse i Calboli da Forlì e ne divenne Signore. Qualche anno dopo tentò di rientrare di sorpresa a Forlì con un esercito ma fu fermato a San Martino in Strada: sperava che i forlivesi ne avrebbero favorito il ritorno, cosa che non accadde e se ne andò. Per contrappasso, fu un Dante al contrario (si perdoni la licenza) in quanto condannato a vagare fuori dalla propria patria e, pur da lontano, continuava a tessere trame e alleanze per tornare nella sua città. Per ragioni di famiglia, il capitano nero poteva considerarsi Signore di Calboli, Predappio e Castrocaro. 

Fulcieri otterrà ancora incarichi di tutto rispetto in varie località senza cessare di operare per il guelfismo, divenne infine Capitano generale di guerra per la Santa Sede con operazioni specialmente nelle Marche, nella Tuscia, in Lombardia. Ciò che aveva più a cuore, però, era l’affermazione della sua famiglia e dei guelfi a Forlì. Non seppe capire che era un desiderio ormai fuori dalla storia, nel 1333 si lanciò in un estremo tentativo di impadronirsi della sua terra ma anche questa volta fu un fiasco. Continuerà comunque a contrastare gli Ordelaffi con cui pare che alla fine della sua vita si sia riconciliato (ne era diventato parente). Morirà quasi settantenne nel suo castello di Calboli nel 1340.

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