Cecco e le stelle

L’amico forlivese di Francesco Petrarca: letterato che, se non è dimenticato, è ricordato col nome sbagliato

Via Cecco "da" Mileto e lo stemma dei Rossi

A Bussecchio, una stradina fa capolino su via Fontanelle, si tratta di un piccolo percorso nemmeno asfaltato. Porta un nome singolare: via Cecco da Mileto. A chi ha qualche erudizione classica verrebbe in mente la Mileto in Asia Minore e, complice la vicinanza dell’aeroporto e dell’estate, fa subito sopraggiungere suggestioni da viaggio in Turchia. Eppure non c’entra assolutamente niente, e, anzi, il nome della viuzza non è del tutto corretto. Mileto o Miletto, infatti, sarebbe il nome del padre (e del figlio) del personaggio in questione, Cecco, appunto. Sarebbe dunque più opportuno denominare la via “Cecco di Mileto”, ma tant’è… Si cerchi piuttosto di conoscerlo. Già, perché a dirla tutta, l’intestatario della strada avrebbe in realtà un nome ordinario: Francesco Rossi. Chi ama le sonorità latine lo pronuncerà come Franciscus Melecti de Rubeis.  Dunque costui sarebbe Francesco Rossi, figlio di Mileto: per gli amici “Cecco di Mileto” o, forse ancora meglio, "Cecco di Miletto". 

Tra gli amici, per esempio, c’era Francesco Petrarca – un legame avvinto da stima reciproca - e qui s’inserisce una vicenda singolare. Dalla fine del 1347 ai primi mesi dell’anno successivo, il forlivese diede inizio a una tenzone, indirizzando un sonetto a quattro rimatori: Boccaccio, Petrarca, Lancillotto Anguissola, Antonio Beccari. Il tema della sfida: “è giusto interpretare come necessari preannunzi del destino umano i moti delle stelle e i segni del cielo?”. Per Cecco la risposta era sì, in quanto i prodigi celesti, compresi folgori ed eclissi, sarebbero indizi di un flagello inviato a causa degli errori umani derivati dal libero arbitrio. Petrarca dissentiva: l’uomo non deve temere questi fenomeni, non preannunciano danni. Più o meno dello stesso parere gli altri. Solo Boccaccio dava ragione al forlivese, secondo lui l’umanità presta troppa poca attenzione ai segni dati dal cielo anche se il più delle volte procurano soltanto uno spavento innocuo. Visto che era l’unico che “lo capiva”, Cecco rispose soltanto a Boccaccio, aggiungendo che certi fenomeni sicuramente sono presagi di sciagure. Infatti, aggiunse, Cesare non si curò dei segni nefasti che lo stavano avvertendo di andare incontro alle pugnalate. Per il letterato forlivese l'umanità non può ignorare i segni che si possono leggere attraverso i fenomeni naturali, chi mai prendesse sotto gamba gli avvertimenti del cielo sarebbe matto. Cecco, a suggello del suo pensiero, terminò la tenzone con questi versi:

“Dunque è ben pien di furia suo coraggio

chi non paventa natural dannaggio”.

Rossi è forse il cognome più comune ma a Forlì s’inserisce in una casata annoverata fin dal Duecento, caratterizzata da un blasone con leone d’oro su campo scarlatto. L’esponente più noto fu sicuramente Cecco, ancora a metà del Cinquecento il suo nome campeggiava tra i miti di Forlì, visto che fu ritratto in una delle bellissime formelle che pavimentavano la cappella Lombardini nella scomparsa San Francesco Grande. Della stessa famiglia Rossi, detta anche Raffaini, si distinsero Nicolò, che nel 1268 fu tra i testimoni della ricognizione delle ossa di San Valeriano. Miletto, figlio di Cecco, fu famoso nelle scienze ippocratiche: in poche parole era un medico valente. Gli annali citano pure un Giovanni, coppiere di Bianca Malatesta, moglie di Sinibaldo Ordelaffi e si trovano Rossi tra gli eletti della città quattrocentesca, come Bartolomeo o Andrea. Un altro Giovanni era cappellano di San Cassiano mentre Raffaele prestò servizio quale condottiero dei veneziani contro i Turchi (1487). Più avanti, Paolo era frate provinciale dei Predicatori in Lombardia nel 1600 e sul finire del medesimo secolo Francesco si distinse come dottor di legge e accademico filergita. 

Ora, il sapere di Cecco era in fin dei conti proprio del suo tempo, e pare che sfidare altri letterati sull’influenza degli astri fosse derivato dal fatto che ebbe previsto una sciagura in seguito alla congiunzione di Marte, Giove e Saturno in Acquario (1345), e ciò sarebbe stata la pestilenza scoppiata nel Catai qualche mese dopo. L'epidemia, negli anni immediatamente successivi, si propagò nel mondo conosciuto e nel momento in cui si dipanò la tenzone era lì lì per arrivare in Italia. Da attento amante delle stelle e dei corpi celesti, concittadino della massima autorità del settore, Guido Bonatti, il poeta forlivese interpretava ciò che vedeva sopra i tetti della Forlì notturna confermando antichi saperi. Petrarca, Boccaccio ma anche Dante facevano sicuramente parte dei suoi amici e quando il Sommo era a Forlì, c’era pure Cecco a conversare con lui, senza troppi complessi d’inferiorità. Il suo successo non è stato duraturo come per gli altri soprattutto per ragioni geografiche (Forlì non è Firenze) e opportunità politiche (la Forlì di allora era sola contro tutti) pertanto gli Ordelaffi non poterono garantire un importante centro di cultura nella prima metà del Trecento. Inoltre è rimasto poco della produzione letteraria del forlivese ascrivibile al movimento umanista fondato da Petrarca. 

Interessante anche se non d’immediata lettura è pure la sua corrispondenza bucolica con Boccaccio col quale costruisce un carme in latino dove traspare la corte di Francesco II Ordelaffi di cui Cecco era diventato il segretario in quanto “legista illustre”, come lo definirà il Bonoli. Con la fine delle fortune di Francesco II, salì sul carro dei vincitori, fu quindi al servizio del cardinale Albornoz che aveva “normalizzato” la questione Forlì all’interno dello Stato Pontificio. Dal 1363 non ci sono più notizie del letterato che, forse, era nato nel 1320. 

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