Ribellione al riformatorio

Estate 1900: deflagra l’insofferenza dei giovani detenuti e si vivono giorni di forte tensione all’interno della Rocca di Ravaldino


Ogni tanto si ha l’impressione che il tempo faccia dei veri e propri scatti in avanti. Consultando documenti storici è chiara la cesura tra Otto e Novecento. A Forlì, il 1900 si apre con fatti che proiettano nel Secolo breve così, all’improvviso, come un temporale. Per esempio irrompono gli scioperi (come quello dei “muratori alla fabbrica dello zucchero” a maggio o dei “fonditori di tubi all’Officina del Gaz” a giugno), ed è poi l’anno del regicidio. Proprio nella medesima estate, caldissima, dunque, sotto molti punti di vista, si registra una scia di eventi che testimoniano un’atmosfera elettrica, incapace di stare ancora negli argini creati dalla generazione precedente. È il caso dei tumulti nella sezione di rigore del riformatorio governativo che aveva sede nella Rocca di Ravaldino. Ora che dopo anni di stallo si è tornati a parlare del carcere al Quattro e si vedono finalmente impalcature alla Rocca, pare un argomento – per così dire – di attualità. 

Il 2 luglio 1900, verso le 13.30, un minorenne, tale Pietro Tiberti “cominciò a battere alla porta della propria cella”. Sembra un comportamento inoffensivo, poca cosa, eppure se il fascicolo (ora conservato all’Archivio di Stato di Forlì) è finito sul tavolo del Prefetto un motivo ci sarà. Infatti, così si legge nel rapporto: “Bastò questo ché una buona parte dei ricoverati imitassero quanto venne iniziato dal Tiberti”. Accorsero i sorveglianti e come prima cosa ammonirono verbalmente i ragazzi, tuttavia “se per alcuni tali avvertimenti riuscirono fruttuosi, invece per altri fu uno stimolo a far peggio”. Da qui è un crescendo: i “ripetuti colpi alle porte” aumentarono, e a essi si aggiunsero urla “in modo che in poco tempo il disordine era al colmo”. Ben presto “alcune porte cederono agli urti e colpi dati dai ricoverati”. I ragazzi “uscirono nel ballatoio” però furono subito presi dai sorveglianti e “condotti in cella di punizione”. A bocce ferme si notò l’opera “devastatrice e vandalica”: infissi scardinati e vari danneggiamenti. Una volta catturati, i ribelli “si mostrarono sottomessi e non fecero alcun atto di oltraggio” né opposero “alcuna resistenza”. A parte uno, Bruni, che cercò di lanciare il “vaso fecale contro il sottocapo” ma fu bloccato in tempo. Egli “si ribellò anche ai sorveglianti” ma “non accadde alcun ferimento né contusione”. La risposta del personale carcerario “energico ed attivissimo” fu tale che “verso le due e mezza” i più facinorosi erano stati sistemati “nelle celle del sotterraneo”. Là continuavano a urlare. Gli altri, nel frattempo, “cominciarono tutti a gridare ed istigare gli altri compagni a percuotere con quanta forza avevano” dando pugni sopra i“pancacci” e a “forzare il cancello di ferro esistente nelle celle di punizione”. 

Pietro Tiberti e Felice Zoffoli scassinarono “la serratura del predetto cancello” e furono sul punto di evadere “se non fossero accorsi in tempo gli agenti a toglierli da quelle celle e portarli in altre più sicure”. All’interno della Rocca “il chiasso, il baccano durò fino alle 7”, non servirono “esortazioni” né “ammonimenti”. Allora fu disposto “di passare i più riottosi nelle celle del Maschio”. Tornò così la quiete al riformatorio “ma i sette ricoverati portati al Maschio seguitarono fino a notte inoltrata a chiamarsi, a cantare e fischiare. Questo nuovo baccano però non venne più sentito dagli altri rinchiusi”. A parte questo, “la notte passò tranquilla”. Un mese di cella di isolamento per tutti a parte Bruni che ne ebbe due da scontare. Più – per i sette ribelli – un periodo da 15 a 30 giorni “a pane ed acqua”. Bruni, chiamato a discolparsi, dirà che “la minestra è cattiva” e che “non deve rimanere sempre in cella come un galeotto perché non ha commesso niente”. Inoltre “vuole il medico e vuole il pancaccio altrimenti farà scontare ciò che gli fanno soffrire”. Non che avesse grandi pretese: il “pancaccio” è una sorta di giaciglio di legno per passare le notti. Si sa che nel trambusto, Aldo Fabbri danneggiò tutto quanto si poteva nella cella, Omero Frukmann ruppe la porta, Marcello Fantini “tolse dal muro un ferro di sostegno alla branda” mentre Luigi Gagliasso, pur lamentando che “il pane non è del peso prescritto” non ruppe nulla. Edoardo Bruni, per contro, “imbrattò il sottocapo Pitton Costantino di escrementi”. 

Il clima teso proseguì. Il 5 luglio si registra che di sera, “sul tardi”, due minorenni “rinchiusi nelle celle del Maschio” si erano “messi a parlare con alcuni ragazzi che stavano nel prato sottostante”. I sorveglianti s’insospettirono, pensando che qualcuno avesse “potuto dare ad uno dei ricoverati una lima”. Seguirono perquisizioni ma non fu trovato niente. Tuttavia fu richiesto di “far montare una sentinella nella parte possente del Maschio dove havvi apposita garitta”.  L’Autorità Giudiziaria, un mese più tardi, fece un sopralluogo nel riformatorio di rigore e a verbale scrisse che “allo stato delle cose” non può “assolutamente rispondere a nessuno scopo, sia esso educativo che repressivo”. Aggiunse che se proprio il Ministero avesse voluto continuare a tenerlo aperto, dovrà fare in modo di “fare delle celle di punizione tali da rendere efficace la punizione stessa e non illusoria come ora accade”. Chiese inoltre di non fare entrare altri minorenni “giacché non sarebbe altro che mettere legna sul fuoco e causare nuovi e maggiori disordini”. 

Infatti, il 23 e il 24 settembre dello stesso anno si registrarono nuovi tumulti. A comparire separatamente davanti al Consiglio di Disciplina saranno il solito Edoardo Bruni con altri minorenni: Concezio Chierichetta, Francesco Bettincini, Giuseppe Celani, Gaetano Trirè e Angelo Crida. Per Bruni “la pasta asciutta la devono dare ai maiali”, additando Pitton come “rovina gioventù” e tutto il personale del riformatorio come “una massa di assassini”. Si mostrava contento di essere processato, provocava, confermava di aver rotto tutto ciò che aveva a sua disposizione “perché essendo oramai rovinato ha procurato di sfogarsi come poteva”. Chierichetta dichiarò di aver rotto “ciò che aveva a sua portata” per la rabbia “di non aver ricevuto un paio di scarpe nuove”. Bettincini “è salito sul muro di cinta per scappare da questi luoghi ove lo fanno penare. Sono nove anni che vi è rinchiuso ed è stufo. È inasprito perché è in segregazione cellulare continua da diversi mesi senza conoscerne il motivo”. Celani, invece, “è trasceso agli eccessi perché annoiato di star sempre rinchiuso”. Triré “ha rotto tutto perché inasprito dai modi rigorosi usati verso di lui dal Sottocapo Sorvegliante: se questo lo avesse trattato con buone maniere esso si sarebbe astenuto dal commettere la sua mancanza”. Crida, invece, “si trova in segregazione cellulare dal gennaio scorso:  inasprito da ciò e dall’impossibilità di poter imparare un mestiere si è lasciato trasportare dalla collera e si è sfogato rompendo tutti gli oggetti che gli sono capitati fra le mani”. 

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